La morte di Yves Saint-Laurent ha suscitato molti commenti, quasi sempre ‘mpellicciati in quella temperie espressiva che i media adottano quando si parla di moda e di stilisti. Una temperie espressiva che rimanda a flebili tende di seta appena mosse dal vento, ad improbabili cappelli leggerissimi, a larga tesa, appoggiati su teste femminili che forse qualcosina la contengono ancora, dentro. Una temperie espressiva che raggiunge il suo acme nel passo inconfondibile delle modelle in passerella: qualcosa di simile allo stile che, nelle prove di dressage, cavalli eccezionali adottano in ambienti eccezionali per un pubblico eccezionale.Il presidente francese Sarkozy ha detto: ‘Con la morte di Yves Saint-Laurent scompare uno dei più grandi nomi della moda, il primo ad avere elevato l’alta moda al rango di un’arte’. Bah. L’alta moda diventata ‘arte’? ‘Arte’ come il Giudizio Universale? Come la Gioconda? Come l’Inno alla Gioia? Se l’arte nasce da una profonda vibrazione sentimentale, che investe gli intimi precordi di un uomo che diventa artista nella misura in cui incarna quel sentimento in immagini adeguate, a che il fruitore dell’opera d’arte possa risalire dall’immagine al sentimento, che il Saint-Laurent abbia ‘elevato l’alta moda al rango di un’arte’ non mi risulta, non mi risulta proprio. Una trentina d’anni fa era sindaco del mio paese d’origine, Scheggia, David Cenci: sì, quello il cui logo (‘Cenci a Campo Marzio’) tanto a lungo è apparso sulla testata de Il Tempo, accanto al titolo. A Campo Marzio il nostro Commendatore aveva messo su un negozio di abbigliamento degno della testata de Il Tempo, accanto al titolo. Una fila di vetrine splendide lunga da qui a lì. Felpati commessi in livrea: una fila lunga da lì a qui. Mio fratello, Bruno, bancario sapiente di piccolo cabotaggio, gli teneva la contabilità della piccola azienda agricola che Cenci possedeva a Scheggia. E ogni tanto, probabilmente scalandoglieli sul compenso pattuito, gli regalava ‘pezzi unici’, ‘roba d’alta moda’: non per niente uno dei suoi negozi si affacciava sulla Fifth di New York. Tra quei ‘pezzi unici’ c’erano molti Yves Saint-Laurent: Bruno li passava a me, io li facevo indossare a Franchino: ‘Figlio mio, finalmente una fortuna dopo tante disgrazie! Finalmente qualcuno avrà motivo di invidiarti qualcosa’. Niente. Per una decina d’anni, niente. Una tantum attesa e invocata, l’invidia (‘morte comune, de le corti vizio’: ahi, padre Dante!) latitò. Nessuno mai s’accorse che i ‘pezzi unici’ indossati da Franchino, la camicia beige con il collo svasato o il giacchino rosa pallido coi bottoni in libertà, erano di Yves Saint-Laurent. Diventavano ‘bellissimi’, ma solo io facevo la spia. Non mi risulta che i visitatori della Sistina, per lasciare luccicare i propri occhi, abbiano bisogno di sentirsi dire che ‘quello lì è Michelangelo’. O che le torme di Giapponesi che assaltano il Louvre rimangano disorientati fino a quando qualcuno suggerisce: ‘Quella lì e di Leonardo’. Nella Konzert Haus di Vienna, subito prima dell’esecuzione, il sobrio presentatore dimentica sempre di suggerire ai presenti: ‘Guardate che questo che state per ascoltare non è di Vasco Rossi’.
‘Arte’. Ma davvero?
AUTORE:
Angelo M. Fanucci