È raro che il vangelo riporti il nome delle persone guarite da Gesù; il brano di oggi è una delle poche eccezioni. Così Bartimeo, l’oscuro cieco mendicante di Gerico, è diventato celebre più degli uomini grandi e blasonati del suo tempo. La cecità era una diffusa malattia in Palestina al tempo di Gesù, dovuta a mancanza di igiene infantile e alla luce abbagliante del sole che splende più che altrove. Proprio per la sua frequenza la malattia aveva assunto anche il valore simbolico della cecità spirituale, che i tempi del Messia avrebbero fatto scomparire. Il profeta Geremia, nella prima lettura di oggi (Ger 31,8) vede un popolo curato e rinnovato da Dio, dove i ciechi e gli storpi possono ormai camminare sicuri e spediti verso la libertà. Anche il profeta Isaia presenta così a nome di Dio il futuro salvatore: “Io ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi” (Is 42,6s).
C’è tanta cecità spirituale anche nelle nostre comunità cristiane, che pure hanno avuto l’apertura degli occhi con il battesimo, che gli antichi chiamavano “illuminazione” (photismòs). Trionfano l’analfabetismo religioso e l’indifferenza, nonostante le catechesi di preparazione al battesimo e alla prima comunione e alla cresima, nonostante l’insegnamento della religione nelle scuole di ogni grado. Sorge da questa crisi di oscurità il grido forte di Bartimeo, che solo Gesù può udire: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà!”. Il grido guidi l’impegno di tutti i battezzati-illuminati (photizòmenoi) a donare luce con la parola e l’esempio. Ci fa da guida la guarigione di Bartimeo, che è l’ultimo miracolo raccontato da Marco. Gesù sta uscendo da Gerico e si appresta a salire a Gerusalemme per la strada di Wadi El-Kelt, l’orrida valle resa famosa dalla parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37).
Il suo cammino verso la città santa era iniziato proprio con la guarigione di un altro cieco a Betsaida in Galilea (8,22-26). Glielo avevano portato in una grande confusione di folla, ma Gesù lo condusse fuori città, come se l’affollamento gli impedisse di agire. L’azione del taumaturgo quella volta fu manipolata e si svolse in due tempi successivi: Gesù prima spalmò gli occhi del cieco con la sua saliva, quasi a volerlo riplasmare, poi gli impose le mani come a concentrare la sua potenza su di lui. Alla fine, gli chiese se vedeva bene; il cieco rispose che vedeva le cose in maniera confusa. Allora gli impose di nuovo le mani e il cieco vide distintamente ogni cosa. Il miracolo precedette la confessione di Pietro, originario anche lui di Betsaida, come il cieco. Pietro aveva formulato la sua risposta di fede in forma ancora incompleta. Essa aveva bisogno di ulteriore chiarificazione, che sarebbe venuta solo a Pasqua.
A Gerico Gesù compie il miracolo in una sola volta e senza alcuna manipolazione. Significa che stiamo arrivando alla rivelazione piena e completa del mistero di Gesù Messia (Cristo) e Figlio di Dio, come annunciava il titolo del Vangelo di Marco. Anche a Gerusalemme Gesù guarirà un altro cieco nel Tempio. La Pasqua sta aprendo gli occhi ai ciechi, che sono tutti coloro che non lo riconoscono; tra questi anche i seguaci che ancora hanno una fede incompleta. Bartimeo viveva di accattonaggio e si era messo in posizione strategica, all’uscita del paese, sulla strada per Gerusalemme, perché di lì dovevano passare tutti i pellegrini diretti alla città santa. A Pasqua i pii ebrei erano invitati a donare aiuto ai poveri, perché potessero anche loro far festa. Gesù, con il gruppo dei seguaci, stava passando, quando si levò alta la voce stridula del cieco che invocava aiuta da lui: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Quella voce insistente e sgraziata dava fastidio, anche perché evocava un messianismo politico a quel tempo pericoloso. Cercarono di metterla a tacere, ma invano. Quell’uomo gridava ancora più forte. Gesù l’udì e lo fece chiamare. Era la prima volta che sentiva da un malato l’invocazione del suo nome.
Finora solo gli indemoniati l’avevano fatto a scopo magico (Lc 4,34). La prossima volta lo farà il ladrone crocifisso con Gesù (Lc 23,42). L’invito di Gesù passò di bocca in bocca finché giunse a Bartimeo: “Coraggio, alzati, ti chiama!”. L’evangelista anticipa qui un verbo che ricorre nelle guarigioni, ma che è specifico per indicare la risurrezione di Gesù: “Àlzati” (egeirêin). Quella che attende il cieco è una specie di risurrezione, un ritorno alla vita sociale, anticipo delle risurrezione di Cristo (16,6). Quando Bartimeo udì che Gesù lo chiamava, si alzò di scatto, gettò via il mantello e andò dal suo salvatore. Anche questo è per Marco un gesto simbolico di inizio della sequela, quando ci si sbarazza di tutto per andare con Gesù. Il dialogo tra i due fu rapido e affettuoso, perché scattò subito una reciproca simpatia.
La narrazione di Marco è vivace, anche se essenziale. La domanda iniziale di Gesù è piuttosto formale: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Egli sa già ciò che il cieco è venuto per chiedere: la luce dei suoi occhi spenti. Ma bisogna pure iniziare in qualche modo il discorso e attirare l’attenzione su ciò che si sta per fare. La risposta del cieco è scontata, ma piena di forte confidenza: “Rabbunì, che io veda di nuovo”. Non è un uomo nato cieco dunque, perché vuole tornare a vedere. È uno dei tanti divenuti ciechi col passare degli anni o per infezione contratta. Qui l’appellativo è mutato. Il cieco si rivolge a Gesù chiamandolo “rabbunì”, cioè “maestro mio” o “mio signore”, un titolo che indicava venerazione e affetto insieme.
Lo stesso appellativo, con tono simile, lo userà Maria Maddalena gettandosi ai piedi di Cristo appena risorto (Gv 20,16). Per fare il miracolo, Gesù non ha bisogno di compiere nessun gesto né di pronunciare formule terapeutiche; dice semplicemente: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Annuncia a quell’uomo che la sua fiducia è stata ripagata. La sua guarigione nasce dall’interno del suo cuore conquistato da Cristo, non da un contatto esteriore. Vuole dire a tutti noi che la confidenza in Gesù, l’affidamento incondizionato a lui, guarisce la nostra cecità spirituale, perché stabilisce quel rapporto di simpatia personale che consente a Dio di entrare nella nostra vita. Così non brancoliamo più nel dubbio, ma abbiamo un chiaro punto di riferimento. Siamo con Dio e non abbiamo nulla da temere.