Ci sono sogni che svaniscono in un istante e parole che restano dentro e pesano come macigni. Succede una domenica mattina di dicembre 2012, una domenica come tante altre fatte di rituali e di preparativi. Andrea e il suo amico prendono come sempre il “sacco” e con il solito entusiasmo raggiungono i compagni. È un campo della periferia perugina quello dove giocano, ma per loro è ogni domenica la finale della Coppa del mondo.
L’amico di Andrea è il capitano della squadra e lo è diventato per merito e perché è il portavoce dei valori di rispetto e lealtà nei quali tutti i suoi compagni si riconoscono. È un ragazzo di colore ma nessuno lo ha mai valutato per questo, e lui stesso è convinto che oggi su quel campo sarà un calciatore come gli altri. Non per tutti però è così. C’è anche chi “fa il genitore”, avendo bisogno di sfogare i propri istinti, ed ancora oggi c’è l’ottusità e l’incapacità di vivere la diversità come valore aggiunto.
L’insulto urlato dagli spalti nell’indifferenza giustificatrice dei vicini è uno schiaffo in faccia a mano aperta, arriva dritto al cuore e risuona come un sibilo sinistro che annulla il sogno e mostra la realtà per quella che è.
Andrea non si capacita: l’insultato è un suo amico e, con lui, tutti i ragazzi di colore del mondo, nell’incolore della nostra pelle. Esce dal campo, chiede spiegazioni ma viene respinto perché un ragazzino non si può rivolgere ad un adulto domandando il perché di un simile gesto. Una strana etica, quella che alza i muri, quella che si chiude nei propri pregiudizi e che si alimenta con l’indifferenza, col rigettare la conoscenza, col non sperimentare e soprattutto col rifiuto del confronto. È proprio su questo terreno che le radici dell’ignoranza e della presunzione attecchiscono e, rigogliose, danno i loro peggiori frutti. In tutto questo non c’è sport, non c’è tifo, c’è solo ignoranza e disprezzo.
Alla fine rimane solo l’ammonizione per Andrea, che è uscito dal campo, e la partita che continua perché lo spettacolo deve proseguire, svuotato di ogni significato ma deve proseguire. Avremmo sperato che, per una volta, quella partita fosse interrotta. Avremmo sperato che la tanto sbandierata etica sportiva prendesse per una volta il sopravvento. Avremmo sperato, da tifosi e amanti del calcio, che quei ragazzi non iniziassero a identificare quello sport come una palestra del “tutto è lecito” dove il fine (la vittoria) giustifica i mezzi e dove tutti i comportamenti sono tollerati.
Andrea e i suoi compagni hanno sempre visto ciò che non è uguale a loro come una porta da aprire per scoprire il mondo che c’è dietro, hanno sempre guardato il diverso come fonte di nuova conoscenza. Non esistono le razze, esiste un’umanità. Oggi hanno scoperto una realtà brutta, e sono convinti che ha perso lo sport e la sua capacità di farli crescere e diventare uomini.