Ancora una parabola nel lezionario di oggi, e ancora una volta esclusivamente lucana. Il racconto di Lazzaro e del ricco fa seguito alle parabole sulla misericordia e a quella sull’amministratore scaltro. Come ricordiamo, a quest’ultima Gesù accompagnava un ammonimento circa la ricchezza: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 16,13). Ecco forse perché il Terzo vangelo registra ora questo triste ed efficace racconto, che quasi ci porta in uno dei gironi infernali danteschi, e al cui contenuto possiamo solo accennare. Non solo per i farisei.
Ma iniziamo correggendo una grave svista del lezionario. Questo inizia con le parole “In quel tempo, Gesù disse ai farisei”, e poi segue la parabola. L’introduzione è inesatta perché non è scritto da nessuna parte – come invece sembra – che Gesù stia raccontando la parabola ai farisei, e che questa sia raccontata per loro. È vero che pochi versetti prima l’evangelista Luca annota “i farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui” (Lc 16,14), ma proprio alla fine della parabola di oggi Luca scrive: “Disse ancora [poi] ai suoi discepoli…”. Insomma, non è detto a chi Gesù stia parlando. Sta di fatto che non possiamo sentirci chiamati fuori. Questa parabola è per tutti coloro che ascoltavano Gesù, e quindi anche per noi. Anzi: il contesto più ampio in cui Luca l’ha inserita non riguarda affatto le diatribe con i farisei: piuttosto, “la parabola del ricco epulone si presenta come l’antitesi della parabola dell’amministratore astuto (Lc 16,1-9).
Se il comportamento di quest’ultimo è stato reinterpretato come esempio di uno che rimette i debiti ai debitori poveri, e quindi come modello di buon uso del denaro, il ricco della nostra parabola presenta il caso negativo: cosa succede al ricco che non amministra bene la sua ricchezza?” (Rossé). Senza nome. Abbiamo notato tutti come sia difficile “dare un titolo” alla parabola: per nominare i due protagonisti bisogna usare una circonlocuzione; uno è Lazzaro, e va bene, ma l’altro è un uomo ricco. Come apprendiamo dalla seconda colletta della Messa di oggi, egli non ha un nome, viene definito dal suo essere facoltoso, o meglio, nemmeno da quello che è, ma da quello che ha: denaro, appunto, vestiti di porpora e bisso.
Non solo: per tutta la parabola il cibo svolge un ruolo importante, e il ricco è uno che ne mangia molto: “tutti i giorni banchettava lautamente” (Lc 16,19). Il paradosso del giudizio. Il contrario per Lazzaro. Questi non ha nulla (è costretto a mendicare), non riesce a mangiare nemmeno le briciole, è addirittura malato (“coperto di piaghe”) e perfino i cani gli danno fastidio. Ma ha un nome, Lazzaro, una forma grecizzata dell’ebraico Eleazaro (noto alla Bibbia in Es 6,23), nome che significa “Dio ha dato il suo aiuto”. E tale nome gli sta proprio bene, perché egli non ha avuto aiuto da nessun uomo, ma nell’altra vita sarà consolato da Dio stesso. Al momento della morte del ricco, nel giudizio di Dio tutto è rovesciato: molto di quello che ai nostri occhi ha valore, perde qualsiasi significato davanti alla immensa sapienza del creatore, che conosce i cuori e sa cosa conta veramente. Al contrario, ciò che per noi spesso è povero, privo di alcun significato, davanti a Dio è immensamente prezioso.
E così, come Luca ci aveva già detto nel Magnificat, Dio è capace di rovesciare le situazioni in favore degli umili. Il buon uso della ricchezza. Potremmo arrivare a facili conclusioni a partire da questa parabola, e allora giova chiarire che il problema non è avere dei beni, quasi che essere ricchi in se possa comportare una maledizione o un giudizio di condanna: il problema è quale uso dei beni si fa. “Il magistero recente della Chiesa conferma la legittimità della proprietà privata, considerandola come un prolungamento della libertà umana, indispensabile all’autonomia della persona e della famiglia. Contemporaneamente ribadisce però l’universale destinazione dei beni. Ciò significa che la proprietà ha un’intrinseca funzione sociale e deve essere gestita in modo da tornare a vantaggio di tutti. Il superfluo economico deve essere messo a disposizione del prossimo, con la donazione o con altro impiego socialmente utile. Quanto ai beni produttivi, è lecito possederli solo se vengono usati come strumenti a servizio del lavoro” (Catechismo degli Adulti Cei, 1125).
Mosè e i profeti. Il racconto cambia totalmente registro quando, dal v. 27, entra in scena la famiglia del ricco. Arriva qui un grave ammonimento: ogni ricchezza è pericolosa se chiude all’ascolto degli altri (Lazzaro) e all’ascolto di Dio (la sua Parola, cioè Mosè e i profeti: l’Antico Testamento). Questa parola vale più di qualsiasi segno o miracolo: che possono impressionare, colpire, ma non convertire. “La conversione implica l’apertura del cuore a Dio, l’attenzione a scoprire la Sua presenza nella Sua parola: il bisogno di segni straordinari è superfluo. Per Luca, quest’ultima parte della parabola costituisce anche una risposta alla domanda su come evitare il destino del ricco: convertirsi! Aprirsi a Dio che parla nella Scrittura e obbedire al suo insegnamento” (Rossé).