La stupenda parabola del buon samaritano fiorisce sulla labbra di Gesù come contributo ad una discussione un po’ troppo scolastica che appassionava i dotti del suo tempo. Portavoce di questo interesse è un dottore della legge che vuole mettere alla prova la competenza di Gesù. La sua, di per sé, non è una domanda cattiva intesa a tendere un tranello, ma una domanda che manifesta curiosità e interesse. Quel maestro forse vuole coinvolgere Gesù in una disputa scolastica che lo metta in crisi. È una disputa che riguarda il comandamento più grande e importante della Legge, quello che garantisce la vita eterna. Perciò la domanda è interessata. Quel dottore cerca la verità, e su questo terreno pratico dell’agire chiede a Gesù: “Maestro, che devo fare per avere la vita eterna?”.
La narrazione è costruita alla maniera socratica, su una serie di domande; il brano ne contiene ben cinque: due poste dal dottore e tre poste da Gesù stesso. Questo rende vivace e interessante il dialogo, dove la risposta finale è costruita insieme dai due interlocutori. La struttura del brano è un capolavoro di pedagogia: è costruito su due dialoghi di quattro interventi ciascuno. Il primo dialogo parte dalla domanda del dottore, che chiede a Gesù che cosa debba fare per avere la vita eterna. Gesù risponde a sua volta con due domande pertinenti, per orientare l’interlocutore a scoprire da sé la risposta: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Il dottore della legge risponde da competente citando lo Shemah, la preghiera che egli stesso recita più volte al giorno (come prescritto in Dt 6,4-9) e che contiene il comandamento di amare Dio sopra ogni cosa. E vi aggiunge anche l’altro precetto parallelo dell’amore del prossimo (Lev 19,18) inculcato nelle scuole rabbiniche del tempo.
Con grande delicatezza Gesù replica: “Hai risposto bene, fai questo e vivrai”. Poteva dire più bruscamente: “Se lo sai, perché me lo domandi?”. Ma il suo interlocutore ha capito bene la gentilezza del maestro, e tenta di giustificarsi. Non gli è chiaro chi sia il prossimo da amare. Nella sua scuola si pensava che il prossimo da amare fosse solo il proprio connazionale, il vicino di casa, al massimo il pagano convertito.Gesù risponde a questa nuova domanda con una parabola, che ha tutta l’aria di essere un fatto di cronaca. Non vuole imbarcarsi in questioni teoriche di nazionalismo, facilmente contestabili. Si appella al linguaggio dei fatti, che sono spesso più chiari dei ragionamenti. La descrizione è sintetica, ma drammatica nella sua brevità. Sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico giace, mezzo morto, un povero malcapitato, massacrato dai briganti che lo hanno depredato di tutto.
Chi passa per Wadi-El-Kelt, per l’antica strada per Gerico, ancora oggi si rende conto dei dirupi paurosi e delle asperità pericolose di quella valle, che poteva essere facile nascondiglio di predoni. Gerico era una città dove abitavano molte famiglie sacerdotali, ecco perché la strada era frequentata da sacerdoti e leviti che iniziavano o finivano il loro servizio nel tempio di Gerusalemme. È questo il motivo più realistico per il quale sono chiamati in campo i due primi personaggi. La parabola non tradisce alcuna antipatia nei confronti della classe sacerdotale, tutt’al più i personaggi sono introdotti per rendere più efficace il contrasto tra persone pie e devote, da una parte, e il samaritano, ritenuto eretico o pagano, dall’altra. Comunque, quei due religiosi conoscevano bene la strada e sapevano per esperienza che era molto pericoloso fermarvisi anche solo per prestare soccorso.
Questo può valere a parziale discolpa, ma sta di fatto che passano alla larga, mostrando di essere senza cuore. A questo punto è introdotto in scena un samaritano, che fa la stessa strada per motivi di interesse commerciale. Può essere uno di quei venditori ambulanti che giravano di città in città cercando di smerciare oggetti utili per la casa. Anche lui passa spesso di lì, infatti conosce bene il proprietario della locanda dove porterà il malcapitato. Siamo al centro della narrazione, perciò le azioni del samaritano sono minuziosamente descritte con ben 10 verbi: passò vicino, vide, ebbe pietà, si avvicinò, fasciò le ferite, versandovi olio e vino per disinfettarle e lenirle, caricò il malcapitato sulla sua cavalcatura, lo portò in una locanda, si prese cura di lui, pagando due denari e garantendo di dare il resto al ritorno. Non poteva fare di più e meglio.
È una lezione concreta sull’amore fattivo verso il prossimo. Essa insegna che “prossimo” è qualunque uomo bisognoso di amore di solidarietà. Per lui si deve fare tutto quello che si può, senza paura di perdere tempo e denaro. La vera carità non fa calcoli interessati, non sopporta esclusioni ed emarginazioni. Ogni uomo merita amore e cura perché figlio amato di Dio. A monte però c’è l’educazione al rispetto, alla stima, al valore di ogni persona, che bandisce ogni forma di disprezzo, di disistima, di prevenzione.
Era scandaloso che Gesù proponesse come esempio al dottore della legge proprio un samaritano tanto disprezzato dai giudei. Perciò quando Gesù gli domanda: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti?”, il suo interlocutore non nomina il samaritano. Quel nome gli bruciava le labbra e la lingua, perciò risponde in maniera neutrale: “Chi ha avuto compassione di lui”. A questo punto, però, Gesù non molla la preda e gli replica di andare a scuola da quell’uomo: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”. Intanto però la domanda iniziale è cambiata. Non è più: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Come si può diventare prossimo di qualcuno?”. La domanda non riguarda più gli altri, ma riguarda direttamente me stesso. Io sono prossimo, se sto vicino a chi ha bisogno e me ne prendo cura. Non posso scegliere preventivamente chi è il mio prossimo, perché egli è chiunque io incontri sul mio cammino, quello che il Signore mi mette vicino, concittadino o straniero che sia.