“Amiamoci gli uni gli altri”. È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da una esortazione, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima Lettera vuole svelarne la natura e indicarne la fonte: “Amatevi gli uni gli altri, perché l’amore viene da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio”.
L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il termine greco “eros”. L’apostolo usa invece la parola “Agape” per indicare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra gli i discepoli. Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti, o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio.
Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprenderlo; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che S.Agostino applicava all’uomo: “Inquietum est cor meum…”. Sì, il cuore di Dio è inquieto finché non trova l’uomo, e lo è a tal punto “da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). L’amore di Dio, potremmo dire, “è in discesa”, si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, “sino a dare la vita per i propri amici”, come Gesù stesso dice.
Medita ancora Giovanni: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il Suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”. L’amore di Dio è di tale natura da portare ad annichilirsi (a farsi persino vittima) pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini. Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù.
L’amore è quello che Gesù ha vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito…Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori…Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell’agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili.
L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il proprio personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull’attrazione “naturale” sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci salva dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”.
Il rapporto che c’è tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: “Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!”
Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.