“A don A’, com’è che, invece dei pesanti pistolotti che hai caricato sulle tue pallose Abat jour più recenti, non ci racconti la vita che hai fatto da 45 anni a questa parte con i disabili? E il perché”. Lo sanno anche loro, che presto racconterò tutto in un libro che è già in mano all’editore: vogliono un anticipo. Siamo in tre amici intorno a un tavolino da quattro (nella mia vita una zampa manca sempre). Al centro del tavolino una bottiglia di birra, di quelle che producono certi panciuti monaci tedeschi tra un salmo e l’altro, e una tazza di tè verde.
Alla loro proposta prima mi schermisco, svicolo, cerco scuse, poi però penso che… “Ma certo! Siamo agli sgoccioli del grande Giubileo della Misericordia, e nei miei “45 anni 45” di convivenza con soggetti deboli, la grande proposta di Papa Francesco non è che abbia trionfato, ma un bello spicchio della mia vita, grazie a Dio, se l’è preso. Lo spicchio più importante, nei miei “45 anni 45” di convivenza con disabili e assimilati. Fu nei primissimi anni ’70 che nei miei circuiti mentali cominciò a circolare con sempre maggiore insistenza, addirittura con petulanza, una parola: condivisione. Potente. Prepotente.
Quando riuscivo (troppo raramente, ahimè!) a ritagliarmi un tempo congruo per ripensare al modello di vita che avevo scelto e a colui che mi aveva accettato tra i suoi seguaci, l’Uomo di Nazareth in cui abitava Dio in persona, due domande, sempre le stesse, mi occupavano la mente: perché hai lasciato che passassero più o meno 18 secoli tra quando hai cominciato a parlare della tua venuta in mezzo a noi a quando quella venuta è accaduta realmente? E soprattutto, perché, dei brevi 33-34 anni che hai passato in mezzo a noi, i dieci undicesimi li hai impiegati a fare il falegname, o qualcosa del genere, in un villaggetto sperduto della malfamata provincia di una terra che i potenti del mondo apprezzavano come il fumo negli occhi? Oltretutto la pochezza del tuo paesino aveva sfondato il muro dei proverbi e per unanime consenso l’appartenenza a Nazareth era diventata il typos della stupidità.
“Trent’anni di nascondimento”: una specie di canonizzazione del gioco del rimpiattino. “Trent’anni di abnegazione”: ma tu eri venuto per affermarti come salvezza di tutti; a negarti ci avrebbero pensato i potenziali beneficiari della tua generosità. No, è un’altra la parola che centra il senso di quella scelta del Figlio di Dio: condivisione. Per trent’anni ha condiviso, poi per tre anni ha spiegato perché l’aveva fatto, perché vale la pena di condividere, e anzi perché la vita stessa, come il ferro nel cemento armato, è condivisione. Condivisione: una parola che all’improvviso si assolutizzò, divenne tout-court sinonimo di “vita”. Non fu la conclusione di una ragionamento. Fu l’effetto d’uno shock esperienziale.