L’omaso e l’abomaso mentali dei quali la Provvidenza a suo tempo m’ha gratificato erano impegnati a ruminare il rapporto fra il recupero della vera natura del sacramento del matrimonio e la giusta calibratura del sacerdozio dei fedeli, quando mi è caduto un mattone sullo stomaco.
È accaduto il pomeriggio di sabato 18 marzo u.s., alla lectio divina di Santa Maria de’ Servi a corso Garibaldi. Per me, rettore di quella chiesa eugubina, la lectio del sabato è anche l’occasione fondamentale per preparare l’omelia del giorno dopo.
Un mattone. La nostra lectio prende l’abbrivo da un foglio in A3 che riporta i testi da commentare e, a titolo di avvio, anche i commenti proposti da Ronchi / Marcolini e da Ravasi. Speranzosi nell’auspicabile incremento settimanale del nostro sensus ecclesiae, apriamo il foglio e ci troviamo davanti un Vangelo chilometrico: quasi intero il IV capitolo del Vangelo di Giovanni, mancano solo i tre versetti iniziali. Il Vangelo della samaritana.
Commentàtelo! Già, ma da da dove cominciamo? Questo Vangelo ci offre una montagna di spunti, nuotiamo in un un mare di provocazioni, annaspiamo in un oceano di possibili riflessioni. Secondo Giuliano, un biblista serio avrebbe bisogno di almeno duecento pagine per commentarlo con un minimo di decoro.
Per di più ci viene suggerito, ai fini di una corretta esegesi, di leggere in controluce sul testo evangelico le tendenze involutive nella Chiesa a cavallo tra il I e il II secolo, quando Giovanni scrive; e scrive non certo in nome di un interesse di principio, come ogni bravo titolare delle odierne cattedre di teologia. No, Giovanni, come tutti gli scrittori dell’età apostolica, scrive per catechizzare le comunità alle quali vuole parlare, per raddrizzare il loro cammino border line.
A questo punto le premesse necessarie per un corretto commento crescono a dismisura, fino a rendere letteralmente impraticabile il commento. E la mia speranza di preparare, almeno… un pochino, l’omelia di domani, va in frantumi.
Domani la terrò, la mia omelia al pusillus grex che frequenta la chiesa affidata alle mie cure. La farò. Più insipida del solito, ma la farò. Però.
Però… Quasi modo geniti infantes: ci ricordate che la poppa materna l’abbiamo lasciata appena l’altroieri, e subito dopo ci invitate a strafogarci di cose belle ma indicibili tutte insieme. Gnaffe, prosit. Quel che non strozza ingrassa.