Ci credo davvero, e con forza, che lo spettacoloso colpo di reni con il quale alla fine della Seconda guerra mondiale l’Europa riuscì a riprendersi dallo stato d’inimmaginabile, totale, angosciante prostrazione nel quale era caduta possa ripetersi ai nostri giorni nei confronti del grandioso fenomeno della migrazione. Fenomeno che non è – come pensa la buon’anima di Salvini quando, tra un insulto e l’altro, pensa di star ragionando – frutto di quel buonismo che noi cattolici avremmo imparato dalle suore dell’asilo, ma è parte integrante del diagramma essenziale di ogni processo storico nel suo insieme.
Fu un formidabile colpo di reni collettivo, allora, tra le macerie. Dovunque. Non solo a Bonn, Londra, Parigi, Roma, ma anche a Scheggia, il paesello di 500 anime, affogato tra le vette dell’Appennino centrale, dove lo scrivente era nato da pochissimi anni (fuor di cabola: 1938), ma con gli occhi aperti. In quel gioiello di paesino, appena passata la guerra, la vita si rilanciò con uno slancio incredibile.
A cominciare dalla gara delle pignatte, l’8 settembre 1944, festa patronale. Dentro una delle pignatte appese alla corda sulla testa della gente fitta fitta, avida di impadronirsi del misterioso contenuto dei cocci, una volta che il giovanotto bendato li avesse mandati in frantumi l’uno dopo l’altro, c’era un gatto vivo. Quando la sua pignatta venne rotta, il gatto saltò a lungo sulla testa della gente distribuendo, prima di atterrare, robusti graffi che vennero accolti con grida entusiaste.
Poi venne attivato un campo da basket, nell’unico spazio pianeggiante del paese (20 metri per 10?). Era il “campo della fiera”, dove mensilmente i proprietari dei tori da riproduzione organizzavano esibizioni che mamma ci proibiva (è peccato!). Oddìo, il fondo non era in parquet ma in terra battuta, ma il tifo era sempre e comunque alle stelle. A onta di una gamba più corta, esito di un poliomielite infantile, giocava e correva come un pazzo anche mio fratello Ubaldo (18 anni più di me), neo-laureato in Medicina, alla prima sessione, in una classe di 25 (venticinque!) alunni tra i quali spiccava Ferruccio Chiuini. Seduti uno accanto all’altro sul muraglione dell’ex “Santa Margherita”, Ferruccio e Baldino avevano salutato l’ultima autoblindo tedesca che lasciava Perugia con un sonoro “che palle!”. L’autoblindo si era fermata, il biondone che la cavalcava era rientrato nell’abitacolo, aveva girato verso di loro il cannoncino in dotazione e i due tapini s’erano ritrovati 10 secondi dopo sopra Ponte San Giovanni. E Baldino aveva scoperto le sue incredibili doti di podista a corrente alternata. Risate a crepapelle. Ma era tutta vita!
Poi venne riattivato il teatro, uno stanzone al pian terreno dal piccolo palazzo comunale, con brandelli di antichi stucchi alle pareti e in fondo un palco traballante. Ma fu sufficiente, lo stanzone, e fu abbastanza solido, il palco, per rappresentarvi Angelo e il fornaretto di Venezia a opera di una compagnia talmente scalcagnata che un solo attore, una vetusta ex soubrette dal profilo vagamente cavallino, impersonava, tra applausi a ciclo continuo, il 70% dei personaggi, dai poppanti ai morenti. Ma era tutta vita!
Abat jour – Cominciando dal basso
AUTORE:
Angelo M. Fanucci