“Signore, insegnaci a pregare!” è il grido che oggi sale a Dio dalla liturgia domenicale, introdotta dall’orazione insistente e confidente di Abramo, primo maestro di preghiera per i credenti di tutti tempi. Il brano che la liturgia ci presenta contiene due insegnamenti: uno centrato più sul contenuto della preghiera cristiana, l’altro concentrato di più sui sentimenti che sono alla base di tale preghiera.
Dalla richiesta appassionata dei discepoli nasce l’oratio dominica, il “Padre nostro”, la preghiera più bella e più conosciuta dai cristiani. Dovremmo essere riconoscenti a quei primi seguaci che ne fecero richiesta, incuriositi dal modo di pregare di Gesù. Egli aprì il suo cuore per rivelare l’atteggiamento e i sentimenti che lo guidavano nel suo rapporto col Padre. Entriamo così nel segreto della sua più profonda intimità.
Egli ci insegna come rivolgersi a Dio e che cosa chiedergli. Nessuna indicazione rituale e nessun atteggiamento esteriore accompagna la preghiera. Non c’è un protocollo per parlare con il proprio Padre. Tutto è improntato a spontaneità, semplicità e confidenza. Non ci sono tecniche yoga nell’insegnamento di Gesù. Del “Padre nostro” abbiamo due versioni: quella di Matteo, che è la più usata, solenne e amplificata (Mt 6,9-13), e quella di Luca, più breve e sintetica. In Matteo l’invocazione iniziale (“Padre nostro che sei nei cieli”) si riveste di solennità liturgica per l’uso che se ne faceva nel battesimo e nell’eucaristia. In Luca l’invocazione è molto semplificata e rispecchia meglio l’uso che ne faceva Gesù, quando si rivolgeva al Padre semplicemente con l’appellativo familiare di “abbà” (papà).
È il sentimento che deve muovere chi usa oggi questa preghiera. Nel primo evangelista le domande contenute nell’orazione sono sette: tre riguardano Dio e sono introdotte col pronome di seconda persona singolare, il “tu”; quattro riguardano “noi” che preghiamo.
Le domande comuni sono quasi identiche, salvo qualche piccola variazione di vocabolario. Gesù ci fa chiedere a Dio che manifesti la sua santità, cioè la sua potenza di salvezza, e realizzi finalmente il suo regno nel mondo. Per noi ci fa chiedere il pane di ogni giorno, per le quotidiane necessità che abbiamo; ci esorta implorare perdono perché siamo sempre peccatori; e ci fa chiedere aiuto nei pericoli che minacciano la nostra vita materiale e spirituale. Le aggiunte di Matteo sono piuttosto una specificazione delle richieste già espresse nella formulazione di Luca.
Ciò vuol dire solo una cosa: che Gesù non ha inteso trasmettere una formula fissa e immutabile da recitare meccanicamente, ma fornire piuttosto uno schema che fissasse le richieste indispensabili contenute nell’autentica preghiera cristiana.
Quindi “il Padre nostro abbraccia tutto intero l’insegnamento del Signore e della sua disciplina perché vi è contenuto una specie di breviario dell’intero Vangelo”. Così si esprimeva Tertulliano, antico autore cristiano del II secolo. San Cipriano di Cartagine alcuni anni dopo scrive: “Amica e familiare è la preghiera fatta a Dio con le sue stesse parole.
Quando preghiamo, il Padre deve riconoscere le parole del suo Figlio. Otteniamo più facilmente quello che chiediamo se lo facciamo con la sua stessa preghiera”. Sant’Agostino insegnava: “Tutte le altre formule di preghiera non contengono nulla che non si trovi già nella preghiera del Signore. Chiunque prega con parole che non hanno alcun rapporto con quelle di questa preghiera evangelica, forse non fa una preghiera fatta male, ma certo troppo umana e terrestre. Del resto stenterei a capacitarmi che una tale preghiera si possa dire ben fatta per i cristiani, perché, essendo essi rinati dallo Spirito, devono pregare solo in modo spirituale”.
Alla preghiera insegnata da Gesù seguono alcune indicazioni che le fanno da cornice. Soprattutto, il Signore indica con che spirito bisogna pregare. Il nostro rapporto con Dio è quello di amici e di figli, ed è in quest’atmosfera familiare di confidenza che bisogna entrare quando ci si dispone a pregare.
Gesù lo dice con due brevi parabole. La prima è quella dell’amico importuno che va dal suo amico a svegliarlo in piena notte per chiedergli in prestito del pane. La casa dei villaggi palestinesi era un monolocale dove tutta la famiglia, spesso numerosa, viveva e dormiva. Quando calava la notte, la donna stendeva le stuoie in terra e i bambini vi si coricavano con coperte di lana uno accanto all’altro, e vicino ai genitori. Quando si spegneva la lampada ad olio, era buio pesto perché mancavano finestre o altro tipo di illuminazione.
L’amico che a mezzanotte bussa pesantemente alla porta non riesce a svegliare i bambini che hanno sonno profondo, ma crea difficoltà all’uomo che si deve alzare in quel buio, andare a cercare i pani in qualche angolo e minacciare di inciampare nei bambini sdraiati e calpestarne qualcuno. Tuttavia, per l’insistenza e l’affetto dovuto all’amico, non può fare a meno di rischiare e gli consegna il pane richiesto. Dio è disponibile come quell’amico, anzi di più, perché non ha impedimenti di sorta per ascoltare le nostre richieste. Dobbiamo fidarci di Lui più che di un amico, perché ci vuole più bene di chiunque altro. La seconda parabola insegna che Dio è come e più di un papà terreno, che non può fare del male ai suoi figli che gli chiedono da mangiare. Un papà non può ignorare le richieste dei suoi bambini. Sarebbe assurdo solo pensare che fornisca loro cose dannose: non dà un sasso al posto del pane o un serpente al posto del pesce, né uno scorpione al posto di un uovo.
Sulle rive del lago di Tiberiade questo era il pasto di bambini e adulti: pane e pesce o pane e uova. Sarebbe un padre snaturato quello che eludesse le giuste esigenze dei suoi bambini e peggio ancora facesse loro del male. Se questo difficilmente accade tra padri della terra, che spesso sono cattivi, quanto meno può accadere nei rapporti tra Dio, che è infinitamente buono, e i credenti, figli amatissimi.
Perciò la preghiera deve nascere da questa certezza: Dio ci vuol bene come un papà e non ci nega nulla di ciò che è necessario alla nostra vita. Anzi, ci dà di più di quanto ci aspettiamo, perché manda lo Spirito santo nei nostri cuori per darci fede e sicurezza di figli. Lo Spirito è la sintesi e la somma di tutti doni di Dio.