Mamma mia! Nelle ultime tre abat jour mi sono pericolato in una materia nella quale sono poco meno che un apprendista, la teologia. Nell’ultima poi, strumentalizzando anche la benedizione a due dita del Papa, ho sacralizzato il primato di quel vivere con gli ultimi (che tentiamo di vivere nelle nostre comunità di accoglienza) su quel vivere per gli ultimi che la maggior parte dei buoni cristiani, magari sotto forma di volontariato, pratica con grande spirito oblativo. Avrò esagerato? Sarò uscito dal seminato? Era l’anno 1981. Il Consiglio permanente della Cei pubblicò La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, un documento che a Capodarco suscitò grandi entusiasmi. I nostri Vescovi ad un certo punto si chiedevano: qual è, nella sfera del sociale, il progetto di vita pienamente umana che Gesù ci ha prospettato? E rispondevano: quello ispirato alla decisione di ripartire dagli ultimi. Perché mai “ripartire dagli ultimi”? Primo. Perché, per mettere in crisi dall’interno, con proposte precise e coerenti, una società dominata da logiche nettamente anticomunitarie, bisogna che le comunità ecclesiali siano capaci di proporre alla società civile modelli di comunità partecipate e di servizio, non solo per andare con decisione controcorrente, ma per impiantare su valori morali le premesse di una organica cultura della vita.Secondo. Perché giustizia vuole che gli impegni prioritari siano quelli che riguardano la gente tuttora priva dell’essenziale. Terzo. Perché, quando salgono in cattedra, sono gli ultimi che ci insegnano a demolire gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Poco dopo, sulla scia di questo documento, ne uscì un altro, emesso stavolta dai Vescovi dell’Emilia-Romagna, che parlava esplicitamente della nostra Comunità di acoglienza: “Queste strutture – parole loro – se non esauriscono la diaconìa della Chiesa, la esprimono in modo visibile e comunitario. Possono avere un valore sociale, ma hanno in primo luogo un valore religioso e profetico perché si propongono come un fatto di salvezza: la manifestazione dell’amore gratuito di Dio che cerca l’uomo”[1]. Il Concilio[2] insegna che la Chiesa, può, anzi deve suscitare opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosiNo, non sono uscito dal seminato. Almeno da quello che seminò il Buon Seminatore. [1] Dichiarazione dei Vescovi dell’Emilia-Romagna, Impegno comunitario a servizio dei fratelli, 24.01.1973, n. 12. [2] Cfr. Gaudim et spes, n. 42.
Fuori del seminato?
ABAT JOUR
AUTORE:
Angelo M. Fanucci