Anche in questa domenica il Vangelo parla della vigna e di qualcuno che è mandato a lavorarla. La vigna nel linguaggio delle sacre Scritture riveste un importante valore simbolico: raffigura il Popolo santo, di cui Dio si prende cura assidua, ma con scarsi risultati, a causa del suo rifiuto a collaborare. (Is 5,1-2). Il testo evangelico odierno è diviso in due parti: la breve parabola della vigna (21,28-30) e l’applicazione agli interlocutori (31-32). Gli interlocutori di Gesù sono i sommi sacerdoti del Tempio e gli anziani del popolo, che erano le autorità religiose ufficialmente riconosciute; esse avevano interrogato Gesù a proposito della libertà che si prendeva di insegnare al popolo nei cortili del Tempio: “Con che autorizzazione fai queste cose?”(19,23).
In effetti, Gesù, semplice laico, si permetteva di insegnare alla gente le vie di Dio, nei cortili del Tempio, senza l’autorizzazione delle autorità competenti. Non aveva studiato nelle loro accademie e perciò non aveva titoli per farlo. Ma quello che più li infastidiva era che la gente andava ad ascoltarlo in massa. Alla loro domanda Gesù aveva risposto con una contro-domanda a proposito del battesimo di Giovanni Battista: era di origine divina o umana? (19,25). Non seppero e non vollero rispondere. Gesù semplicemente concluse: “Neanche io vi rispondo” (21,27). La polemica andava montando: da una parte la gente accorreva a lui, dall’altra la crisi con l’autorità religiosa si allargava sempre di più. Di fronte a questa realtà, sicuramente rischiosa, Gesù non si ritira, anzi alza volutamente il tono della polemica.
Introduce la parabola con un diretto: “Che ve ne pare?” (21,28). E racconta di due fratelli che si comportano in maniera esattamente opposta nelle parole e nei fatti. Al rifiuto verbale del primo figlio non segue nessuna reazione del padre, che sembra pazientemente aspettare la sua resipiscenza. Infatti, più tardi questo primo figlio cambierà idea e andrà a lavorare nella vigna. Il secondo figlio invece dà una risposta esageratamente positiva: si rivolge al padre perfino con il titolo di “signore”, che sa tanto di servilismo. Poi in realtà non andò al lavoro. Il dialogo polemico di Gesù con la gerarchia del Tempio continua: “Chi dei due ha fatto la volontà del padre?” (21,31). La risposta è corretta; “Il primo” dicono, ma la intendono moralisticamente, secondo la mentalità corrente. Del resto un detto rabbinico recitava: “I giusti promettono poco e fanno molto; gli empi parlano molto e non fanno nulla”.
L’intenzione di Gesù però va oltre: il significato vero è la richiesta di Dio che è di fronte alla risposta dell’uomo. La prima reazione negativa dell’uomo è correggibile. I responsabili del Tempio approvarono il comportamento del primo figlio, ma difficilmente avranno approvato l’applicazione che ne fa Gesù ai pubblicani e alle prostitute, che – dice – giungeranno nel Regno prima di loro. La conversione dei pubblicani e delle prostitute era ritenuta pressoché impossibile. Tra parentesi: non c’è ovviamente alcun bisogno di tradurre in termini attuali la parole “prostitute”; dobbiamo invece provare a tradurre “pubblicani”.
In buona sostanza si trattava di funzionari corrotti a servizio dello straniero occupante, i Romani, collaborazionisti, collettori di tangenti, e quant’altro. Gesù costata che pubblicani e prostitute accolgono con buona volontà il messaggio salvifico del Regno; mentre coloro che si vorrebbero considerare i chiamati lo rifiutano. I vertici del Tempio sono simboleggiati dal secondo figlio, che dice sì, ma poi disubbidisce. Quello che dice no, ma poi ubbidisce, raffigura pubblicani e prostitute. Come altre volte si è detto, la parabola è un “enigma” da sciogliere. Essa racchiude in sé implicazioni per la vita, maggiori di quanto appare a prima vista. Quella di oggi non si limita ad affermare l’importanza del fare rispetto al dire. Essa vuole essere una critica nei confronti di quelli che si pongono dinanzi a Dio con la loro devozione parolaia, ma poi concretamente non fanno la volontà del Padre.
Ed è anche un incoraggiamento per chi, consapevole della propria debolezza, ha la pazienza di attendere che lo Spirito di Dio sospinga la propria libertà, verso l’accoglienza del messaggio salvifico del Regno. Inoltre il padre della parabola non costringe i suoi due figli, che alla fine fanno quello che vogliono. Così Dio si comporta con noi. Egli ci chiama, ci invita. Noi siamo liberi di dire sì o no. Si direbbe che il Padre onnipotente diventa “impotente” davanti alle nostre decisioni. Egli ci mette dinanzi il bene e il male, la vita e la morte, come già anticamente era detto nel libro del Deuteronomio. A noi la scelta.