Pentecoste annulla Babele

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini Domenica di Pentecoste - anno A

In questa domenica di Pentecoste, la liturgia narra gli avvenimenti che celebra, soprattutto nella prima lettura della messa. L’episodio è diviso in due parti: nei primi versetti si racconta quello che avvenne nel chiuso del Cenacolo, ossia l’effusione dello Spirito santo sui discepoli (At 2,1-4), nella seconda l’afflusso della folla incuriosita dal fragore che si era udito in città e dalla presenza inaspettata di uomini sconosciuti, che parlavano in preda allo Spirito e che incredibilmente tutti capivano, nonostante la diversità delle provenienze linguistiche (At 2,5-13). Il fatto ci è noto fin dai tempi della cresima; ma forse ce n’è sfuggito il significato profondo.

Le letture della messa della vigilia di Pentecoste ne forniscono la chiave. Il racconto termina parlando dello stupore della folla nel costatare che ognuno li sentiva parlare nella propria lingua, loro che venivano dagli angoli più remoti dell’Impero. È normale che fra popolazioni straniere ordinariamente non ci si intenda. Dunque stava lì accadendo qualcosa di anormale, che misteriosamente rendeva gli uomini “comunicabili”. La realtà storica della molteplicità delle lingue è solo il segno di quelle misteriose barriere che separano gli uomini. In realtà tutti abbiamo difficoltà a comunicare, anche quando parliamo la stessa lingua o addirittura lo stesso dialetto.

Questo avviene dovunque: in famiglia, per strada, a scuola, in ufficio, in fabbrica. Al principio di ogni dissenso c’è sempre la difficoltà di comprendere l’altro. Come è possibile – si domandano i più attenti – che, pur avendone il desiderio, e forse anche la possibilità, non si riesca a capirci? Che sia sceso tra noi qualcosa di simile ad un “seme d’incomunicabilità”? La prima lettura della vigilia di Pentecaste ne dà una risposta, narrando l’episodio della “torre di Babele”. Il racconto biblico parla della volontà di un gruppo di uomini, che decidono di edificare una torre talmente alta da entrare in competizione con Dio. Questo essi intendono, quando dicono: “Facciamoci un nome”. Nell’antico linguaggio delle sante Scritture “farsi un nome” equivale a reclamare la propria autonomia in tutto e da tutti, anche da Dio.

Ma siccome l’uomo può solo “ricevere un nome”, perché solo Dio è il Nome, che dà esistenza, energia e vita a chi vuole, la pretesa di dare vita a se stessi ebbe come conseguenza l’incapacità radicale di entrare in comunione con l’altro. L’interpretazione corrente attribuisce, leggendariamente, all’episodio della torre di Babele la differenziazione dell’unica lingua umana iniziale nelle differenti lingue nazionali o tribali. In realtà quel giorno s’innescò il dramma dell’incomunicabilità. Non c’è chi non veda quanto questa realtà sia attuale e potentemente radicata in ognuno: le Scritture la chiamano “peccato”. Lo Spirito di Gesù Cristo, a Pentecoste, entrò con forza nella storia, perdonò il peccato e gli uomini sperimentarono di non essere più condannati non capirsi.

Il Vangelo ci riporta alla sera di Pasqua. Cinquanta giorni prima dei fatti narrati nel libro degli Atti degli apostoli. I discepoli sono chiusi dentro, per paura dei giudei. Paura seria e del tutto comprensibile: all’epoca, quando un capo era stato condannato per ribellione, come era avvenuto per Gesù, rischiavano grosso anche quelli che lo avevano seguito. Era pertanto misura prudenziale sbarrare porte e finestre, farsi vedere in giro il meno possibile, almeno fino a che non si fossero calmate le acque. Il clima generale era dunque di paura. Ma improvvisamente la situazione si capovolse. Gesù, ormai glorificato, comparve in mezzo a loro, incurante di muri, porte e finestre. Era proprio lui, le mani ferite, il fianco squarciato. La prima parola che essi ascoltarono fu “pace a voi”.

Alla paura che li inchiodava lì dentro, subentrò la pace e la gioia. Non c’era più motivo di restare chiusi, tanto più che si sentirono rivolgere l’invito ad andare: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,19). Poi avvertirono il soffio potente di Gesù su di loro. A somiglianza del vento impetuoso che aveva trasformato in cosmo il caos iniziale (Gn 1,2), e il respiro del Creatore che aveva reso vivo il primo essere umano (Gn 2,7), il soffio di Gesù trasformò la vita di quegli uomini. Cinquanta giorni più tardi, un altro vento fragoroso sfonderà porte e finestre, e apparirà come fuoco che incendierà la loro vita, li spingerà ad uscire da se stessi, e gridare a tutti che Dio darà lo stesso Spirito a quelli che si sottomettono a Lui.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi