Acqua? Il problema sono le condutture

del doppio referendum del 12-13 giugno, il rischio è che si vada a votare senza conoscere le vere “falle” del sistema degli acquedotti in Italia

Tutti a parlare di acqua, in vista del doppio referendum del 12 e 13 giugno, e pochi a disquisire sul vero problema dell’acqua in Italia: un problema del tubo. Già, perché sono gli acquedotti a… far acqua in varie parti della Penisola, tanto che si stima una perdita media – dai serbatoi e dalle fonti fino ai rubinetti – di circa il 45%, un colossale fiume che si disperde a causa di vecchie reti e di prelievi illegali. Un fiume che è stato valutato sui 2,5 miliardi di euro all’anno. La realtà quindi parla di 320 mila chilometri di condutture più da rottamazione che da modernità; di un 20% di italiani che non hanno fognature nelle quali far convogliare i reflui; di un Mezzogiorno in cui troppo spesso l’acqua non arriva al rubinetto o, comunque sia, ha problemi di potabilità. Quindi la vera questione, economicamente parlando, è quella del rinnovo (o della costruzione ex novo, laddove manca) della rete acquedottistica, per importi calcolati in decine di miliardi di euro. Una cifra spaventosa, totalmente fuori dalla portata dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Tanto per capire come stiamo affrontando questa emergenza, si calcoli che attualmente gli investimenti nelle reti non superano i 700 milioni di euro l’anno… È soprattutto per questo che il decreto Ronchi, bersaglio di due referendum, aveva fortemente aperto agli investitori privati. In cambio, la gestione del ciclo idrico integrato che prevede la fornitura dell’acqua, lo smaltimento fognario e la depurazione; e una remunerazione del gestore non inferiore al 7% di quanto investito. Parlando terra terra: qualcuno i nuovi acquedotti li dovrà pur pagare. O lo fa l’ente pubblico tramite la fiscalità, o lo fa il cittadino tramite il pagamento di una bolletta inevitabilmente destinata a salire. Anche perché il costo dell’acqua in Italia è tra i più bassi d’Europa, meno di un terzo di quello tedesco. Siamo in mezzo ad un gigantesco equivoco: l’acqua è un bene comune in tutto e per tutto? O un’utility come il gas e l’elettricità? Un equivoco nato dalla legge Galli del 1994, che la riconosce come bene comune, ma che impone l’integrale copertura dei costi sostenuti per portare l’acqua nelle case. Non si può fare un servizio “in perdita”, come per esempio nel trasporto pubblico locale. Quindi l’acqua già la paghiamo (poco più di un euro per mille litri erogati) – in Toscana più del doppio che in Val d’Aosta – e gli investitori privati già ora gestiscono alcune reti acquedottistiche o sono nel capitale di società a prevalente proprietà pubblica. Il vero problema è: chi paga la sostituzione del colabrodo? Questa poteva benissimo essere una materia “federalista”, che poteva e doveva trovare regole differenti a seconda delle differenti situazioni locali. A Verona, per esempio, la gestione pubblica è efficiente e ben gradita dai sindaci alla quale si affidano. Fa continui investimenti, ha conti in ordine, ha perdite praticamente “fisiologiche” e comunque minime; l’acqua è buona, salubre, controllata e depurata interamente. E riesce a soddisfare la sua doppia anima di bene comune (c’è, abbondante, dappertutto, ad un costo che non prevede profitti sulla stessa) e di utility (appunto si paga). Una cartolina che, magari, non è quella di qualche città siciliana. La soluzione è quella di migliorare le inefficienze territoriali, o scardinare l’intero sistema attuale a macchia di leopardo? Il Governo ha scelto la seconda strada, fors’anche perché le “inefficienze territoriali” continuano a non migliorarsi; ora l’intera questione finisce al vaglio dei cittadini tramite l’istituto referendario.

AUTORE: Nicola Salvagnin