Ubriacature

Abatjour

Ubriacature, al plurale. Fino alla seconda metà del 2010, ne avevo conosciute solamente due. La prima, classica, da vino. A Scheggia, quella quotidiana del “Caldararo”. In paese erano pochi quelli che ne ricordavano il nome proprio, Alfredo, tutti lo conoscevano per la sua eccellente abilità di artigiano del rame, dalle cui mani uscivano “caldari” di ottima fattura. “Caldari”, quei recipienti da lasciare pendenti dal gancio del camino a legna, per garantire la minestra/sbiobba a chi torna a casa affamato ma fuori orario, o in ogni caso per assicurare la disponibilità di un minimo di acqua tiepida sulle ceneri calde. Il Caldararo lavorava sempre vicino al fiasco del vino. “L’ultima acqua? Quella del battesimo!” bofonchiava Gigetto del Prete, che da parte sua l’acqua la conosceva solo nella forma piovana. Ogni tanto il Caldararo lasciava il suo antro e attraversava il paese, rodendosi rumorosamente l’indice della mano destra ripiegato ad “u” e lanciando grida e poetici moccoli policromi: il colore dell’aggettivo prevaleva sulla blasfema aggressività verso il sostantivo. Il Caldararo aveva due nipoti miei coetanei: Domenico, per anni addetto all’Ufficio del lavoro di Gubbio, e “Miretto” (Amilcare), l’amico del cuore, che morì giovanissimo, alla guida di un autotreno, nei pressi di Genova. Con loro due stavo volentieri, molto meno col loro padre. Ma grande fu la mia meraviglia quando, quel padre, Augusto, il figlio del Caldararo, lo conobbi da vicino, Fu durante un pellegrinaggio a Lourdes. Primi anni ’70. Il giorno in cui mia madre, alla quale avevo fatto il regalo più ambito, batté rumorosamente e a lungo le mani, gridando come una bambina, quando, all’ultima curva, apparve la basilica. Quel giorno Augusto, al mio fianco, a Massabielle improvvisò una preghiera talmente bella e intensa da inumidirmi gli occhi. La seconda ubriacatura fu tutta mia, personale. Imprevista. Avevo vent’anni e una fame perenne, anche se al Seminario Romano il cibo era ottimo e abbondante (solo il vino era razionato). Mi piaceva da morire il latte, nudo e crudo. Per placarne la sete, attivai furbizie assortite e riuscii a farne incetta, per trangugiarlo poi, di nascosto, in quantità esagerata; e… contrassi la sbornia da latte. Non vi dico i suoi effetti collaterali, tra il doloroso, il patologico e il ridicolo. Al medico non gli dissi gli antefatti, e lui non ci capì niente. Vent’anni mi durò la nausea del pallido liquido nutriente. Due sbornie, dunque, nella mia vita. La terza, quella che incontrai nella seconda metà del 2010, era di pari virulenza, ma di tutt’altro genere.

AUTORE: a cura di Angelo M. Fanucci