Quali sono le dimensioni reali del disastro giapponese? Nel momento in cui io scrivo, nessuno è in grado di dirlo. Certo è che le porteremo a lungo negli occhi, quelle immagini terrificanti delle case che si accartocciano su se stesse, delle auto trascinate via dall’acqua come fossero giocattoli. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, / la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta. Anche l’acqua che ha straziato il Sol levante se ne stava al suo posto, forse centinaia, forse migliaia di metri sotto il livello marino, se ne stava utile et humile et pretiosa et casta, e noi con Francesco potevamo pensare a lei con gratitudine, e benedire la sua tranquilla liquidità nascosta. Poi un infarto ha colpito il cuore della terra, uno spaventoso sussulto di morte; e una massa enorme di acqua è schizzata prima verso l’alto, poi verso le coste più vicine; e a mano a mano che invadeva la terra non era più humile et casta, ma diventava limacciosa, violentissima, assassina. Ma noi che tentiamo di seguire Gesù sulla via della verità dobbiamo ancora e sempre, magari con la voce spezzata e con la morte nel cuore, ripetere: “Laudato si’, mi Signore…”. Perché tra le tante lezioni che gli uomini tentano di trarre dal tragico evento ce n’è una che chiede un suo spazio. In negativo, il riproporsi dell’estrema fragilità della nostra vita. Quando dissi messa, 50 anni fa, un compagno di studi che da poco aveva lasciato il seminario mi regalò un libretto che ho smarrito, ma ricordo quello che lui ci aveva scritto, a titolo di dedica: “La vita è un ponte: passatelo, ma non costruiteci sopra”. Un paio di anni fa, alle soglie della primavera, venne da me un tecnico giovanissimo, ventunenne, entusiasta del suo fresco lavoro di informatico; cominciò e mettere a punto la mia apparecchiatura e disse: “Torno nel pomeriggio”. Non tornò. Un infarto devastante, lui che non aveva mai avvertito il minimo disturbo. Estote parati. Moralismo? No. Solo un bisogno estremo di vivere la vita in tutta la sua verità. E poi il grido della fede: anche questa morte, come tutte le morti, deve essere trasformata in vita; solo per questo le è stato lasciato libero l’accesso alla storia dei nostri giorni. “Che la vita viva”. Anche sulla landa desolata del nord-est del Giappone di questi giorni. Anche per loro, al di là della fede che possono avere o non avere, Emanuele (“Colui che è vicino”) non è un appellativo, uno dei tanti appellativi di Dio. No. Non è un suo appellativo, è il suo nome proprio.
Vivere nella verità
abatjour
AUTORE:
a cura di Angelo M. Fanucci