Vita da immigrato

Società. Intervista a un albanese che oggi è ben integrato, dopo mille difficoltà

Sono ripresi i viaggi della speranza sulle carrette del mare. Con gli sbarchi sono tornate anche le polemiche… Eppure sarebbe giusto sforzarsi di capire prima di giudicare. Dietro a ognuna di quelle persone c’è una storia, spesso di grande dolore, che li induce a lasciare la loro terra e i loro cari per affidare i pochi denari disponibili a degli scafisti senza scrupoli, per giungere esausti e a mani vuote in un paese sconosciuto. La storia di un giovane albanese, A. M., è una delle tante che può aiutare a riflettere. Quando sei arrivato in Italia? “Nel 1998, a 22 anni, imbarcato su un motoscafo per 3 milioni di vecchie lire”. Non avete incontrato nessun controllo? “No, ci dicevano che i soldi pagati servivano anche per evitare certi rischi. Siamo sbarcati sulla costa pugliese. Poi, ognuno per la sua strada. Io ho girovagato un po’ e poi sono arrivato a Foligno”. E lì che facevi? “Quasi nulla. Ero clandestino, per cui solo qualche giornata pagata a 20.000 lire per 10 ore di lavoro e con l’ordine di scappare se vedevo arrivare persone in divisa o se qualcuno dei miei colleghi italiani mi faceva un cenno. Vivevo alla giornata: per sopravvivere, ho anche fatto qualche piccolo furto. Per dormire, mi arrangiavo. Poi altri ragazzi mi hanno fatto conoscere A.G. Gli sarò grato per tutta la vita! Ci ospitava gratuitamente nella sua casa in montagna, rischiando una denuncia, e senza volere nulla in cambio. Ci portava sempre qualche vestito e da mangiare, specie se sapeva che non lavoravamo. Ci raccomandava di non cedere alla tentazione di entrare nei giri dello spaccio o del malaffare. Poi è uscita una sanatoria e ci siamo regolarizzati. Poco dopo ho trovato un lavoro da muratore che mi ha permesso di pagarmi l’affitto di una stanza e comprarmi uno scooter per muovermi ed essere autonomo in tutto. Quando l’impresa è andata in crisi, avevo ormai imparato bene sia la lingua che il mestiere, così ho aperto una ditta tutta mia. Oggi ho 9 dipendenti, parte dei quali sono i miei fratelli che ho fatto venire dall’Albania”. Senti la nostalgia della tua terra? “Certo. Ogni tanto ci torno anche per far visita ai miei genitori, ma ormai il mio posto è qua. Mi sono sposato con una ragazza italiana, abbiamo due bambini e siamo molto felici. Negare la speranza a chi soffre equivale a uccidere. È vero pure che accogliere le persone per poi mandarle allo sbando è altrettanto disumano e ingiusto. Io sono stato fortunato, perché ho incontrato una mano amica; altri miei amici sono finiti male. La soluzione è certamente assai più complessa di un semplice respingimento, e richiede più sforzo da parte di tutti”.

AUTORE: Massimo Bontempi