Quanto sa di sale… la Chiesa?

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini V Domenica del tempo ordinario - anno A

Il sale, la luce e la città sul monte sono le immagini che dominano in questa liturgia domenicale. Esse hanno in qualche modo funzione di tema in tutto il Discorso della montagna, che è iniziato la scorsa domenica e continuerà nelle prossime. Il loro intreccio può essere considerato una parabola a scopo ecclesiale. Tutto l’insegnamento di Gesù ai discepoli ha lo scopo di radicarli nella consapevolezza della loro funzione nella storia. Per comprenderne lo spessore, è necessario avere presente una domanda di fondo: quale è l’identità profonda della comunità dei discepoli? Con quale funzione Gesù ha pensato la Chiesa nella storia? La comunità dei discepoli, la Chiesa, si può rassomigliare al sale, alla luce, a una città posta sopra un monte.

Il sale è ovviamente pensato in relazione agli alimenti, cui dà sapore, che depura, che protegge dalla putrefazione; ma che può anche corrompersi, perdendo la funzione che gli è propria. Allora non rimane che attendere il giudizio della gente, che lo calpesterà quando passa per strada, dove è stato buttato, reso ormai inservibile. Gesù sembra mettere l’accento su quest’ultimo aspetto: la Chiesa fallisce il suo scopo nella storia, se la comunità dei discepoli perde la capacità di dare sapore alla vita degli uomini. La storia si è ripetutamente incaricata di mostrare la verità di questa parola. La parabola del sale suggerisce anche altri approfondimenti. A guardar bene, il rapporto quantitativo con gli alimenti, ai quali è funzionale, si direbbe decisamente sproporzionato: basta pochissimo sale a modificare il gusto di molto cibo. Quando è troppo, disgusta; ma disgusta anche quando è troppo poco. D’altra parte, se è inquinato da altre sostanze che non sono sale, sebbene gli somiglino, quel sale non sala.

Il senso della parabola potrebbe essere anche questo: forse Gesù non prevedeva che fossimo in tanti, ma piuttosto che conservassimo la capacità di dare sapore alla vita dei nostri simili, sciogliendoci a loro favore, come fa ogni buon sale. La luce. I discepoli non possono attribuire la luce a se stessi, ma sono destinati a riflettere la luce di Dio, che l’affida loro perché la facciano risplendere. Precisamente in questo senso si esprimeva anche il Concilio Vaticano II, quando dava inizio ad uno dei suoi documenti più importanti, proclamando: “La luce delle genti, che è Cristo… risplende sul volto della Chiesa”. I discepoli tuttavia possono comprometterne l’azione e provocarne perfino lo spegnimento. Questo dice la piccola, graziosa parabola della lucerna a olio, che nella rustica casa palestinese del tempo era destinata ad illuminare l’ambiente domestico. Ma se, anziché metterla sul piedistallo a ciò destinato, qualcuno avesse avuto l’idea di nasconderla sotto un vaso, non illuminerebbe nessuno, anzi via via si spegnerebbe per mancanza di ossigeno. Cioè avrebbe fallito lo scopo.

Questa faccenda della luce è stata spesso interpretata come una ingiustificata pretesa dei cristiani. Questione di malintesi. Il profeta Isaia, nella prima lettura, si incarica di chiarire ogni cosa. La luce del discepolo sorge quando egli opera la misericordia. Cioè: quando spezza il pane per chi ha fame, dà un tetto a chi ne è privo, dà vestiti agli straccioni (58,7); e poi aggiunge che la sua luce diverrà splendente come un meriggio estivo, se egli cesserà di essere un oppressore, di puntare il dito, e di parlare empiamente (58,9-10). Ogni eventuale altra pretesa fa parte del peccato del discepolo e della sua comunità. C’è infine l’altra immagine, la città sul monte (v. 14). Essa simboleggia la forza di attrazione della comunità dei discepoli.

Diverse città in Palestina godono di questa posizione di visibilità; ma quella di cui parla Gesù non corrisponde a nessuna di esse. È piuttosto quella Gerusalemme ideale di cui aveva parlato anche Isaia: verso di essa saranno attratti tutti i popoli, e nello stesso tempo da essa usciranno coloro che porteranno il lieto annunzio della presenza di Dio nel mondo (Is 2,2-5). Gli studiosi parlano di un movimento centripeto e centrifugo. Al pari di quanto si è detto della luce, tale forza di attrazione non viene dai discepoli e dalle loro capacità, ma unicamente da Dio che li ha scelti. Essi ormai non possono più nascondersi, come non lo può una città costruita in cima ad un monte. Ma non possono nemmeno gloriarsi della loro posizione, ben visibile certo, ma assai scomoda, esposta agli attacchi di chi li vede come nemici, e spesso anche alla derisione degli amici.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi