La notizia dell’ennesimo suicidio di un detenuto, avvenuto per giunta nel carcere di Perugia, induce a riflettere sull’effettiva efficacia della misura detentiva, così come oggi concretamente realizzata. La privazione della libertà personale costituisce la più grave delle sanzioni che lo Stato prevede come conseguenza della violazione delle leggi, per cercare di assicurarne il rispetto. In alcuni casi, per scongiurare pericoli di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove, si consente addirittura la carcerazione dell’indagato come misura preventiva, che costringe l’imputato, talora innocente, a subire periodi anche lunghi di carcere in attesa della fine del giudizio. I risarcimenti che poi lo Stato, per importi talora considerevoli, è costretto a pagare alle vittime di ingiusta detenzione, se dal punto di vista giuridico fanno conseguire il ristoro del pregiudizio, non valgono certo a restituire al malcapitato ciò che egli ha irrimediabilmente perso sul piano umano, nelle sue componenti interiori, affettive, relazionali e sociali, se è vero, come insigni scienziati sostengono, che anche una carcerazione di breve durata determina conseguenze irreversibili sul piano psicologico, tanto più in chi sia ingiustamente assoggettato a tale regime. D’altra parte, il ripetersi con sempre maggiore frequenza di suicidi ed altre forme di autolesionismo nelle carceri italiane non può non costituire sintomo di un diffuso disagio e malessere, che vanno oltre la sofferenza inevitabilmente derivante dalla restrizione della libertà individuale. Si adducono come cause il sovraffollamento degli istituti penitenziari, la carenza di personale e strutture, in definitiva la scarsità delle risorse finanziarie, ragioni che certamente hanno il loro peso. Ma forse, senza voler mettere in dubbio il potere dello Stato di prevedere sanzioni penali e fra esse quelle restrittive della libertà personale, alle quali peraltro il legislatore ricorre probabilmente in maniera eccessiva, va meditato sull’effettiva utilità di questo genere di sanzioni dato che, secondo quanto impone la Costituzione, le pene dovrebbero “tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27). Così come attualmente organizzato, il trattamento penitenziario in concreto risulta purtroppo non solo tradire la finalità imposta dal costituente ma addirittura mettere a repentaglio la salute fisica e psichica dell’individuo coinvolto, come dimostrano i recenti fatti di cronaca. Non per nulla si stanno facendo strada sanzioni alternative al carcere, che per lo Stato comporta costi ingenti senza assicurare gli effetti sperati, sia in termini di prevenzione che dal punto di vista riabilitativo, e che probabilmente, comportando il massimo grado di afflittività, dovrebbe essere riservato a reati di una certa gravità. In ogni caso, anche per le ipotesi in cui si ritiene necessario ed opportuno mantenere in vita la misura detentiva, non si può prescindere dal dovere di assicurare ai reclusi un regime di vita che, compatibilmente con le esigenze penitenziarie, tenga conto della dignità dell’individuo il quale, per quanto riconosciuto colpevole, mantiene pur sempre la propria natura di persona umana, con il rispetto che questa esige in ogni circostanza ed in ogni luogo.
Non si può ignorare la dignità della persona
IL COMMENTO
AUTORE:
Avv. Marco Canonico