L’anno liturgico sta volgendo al termine, suscitando nel cuore della Chiesa e di tutti noi sentimenti di gratitudine e di attesa. Gratitudine per la pazienza e la misericordia di Dio, che, nonostante le nostre fragilità, ci ha conservato nell’esistenza terrena e ci ha donato il necessario per vivere. Non a caso s’è introdotta nella stessa tradizione liturgica questa giornata di tradizione rurale, e cioè il ringraziamento per il raccolto abbondante, frutto del nostro lavoro, che tra l’altro fa da substrato materico (pane e vino) per il sacramento eucaristico e coinvolge il lavoro e la fatica umana nella sfera della sacralità. Dicendo questo, che attiene in particolar modo al lavoro agricolo, non vogliamo dimenticare tutte le altre forme di lavoro, che oggi purtroppo, per vicende finanziarie ben note, scarseggia e mette a rischio la sicurezza e la pace di tante famiglie.
Di lavoro in questa domenica parla anche la Seconda lettera di Paolo ai cristiani di Tessalonica: è Paolo che richiama i cristiani al dovere del lavoro, come lui stesso fece per non essere di peso a nessuno; ed anzi dettò loro una chiara regola comportamentale: “Chi non vuol lavorare neppure mangi!” Si badi: chi non vuole lavorare, non chi non può lavorare! Non è giusto, se si è in grado di lavorare, e quale che sia il lavoro purché onesto, vivere sulle spalle degli altri! L’ozio, anche forzato, rimane il padre dei vizi, come ci insegna la sapienza popolare. Insieme alla gratitudine c’è da risvegliare anche l’attesa: l’attesa della nuova venuta del Signore, quella alla fine del tempo e del cosmo, che per ciascuno di noi è anticipato da “sorella morte”, come la salutava san Francesco.
Per i cultori del nome del Signore, dice il profeta Malachia, sorgerà il sole di giustizia, invocato dalla comunità cristiana con il maranathà dell’Apocalisse. E quest’attesa non va minimizzata, ma va consolidata, come dice Gesù stesso con riferimenti profetici alla storia, e cioè alla distruzione del tempio di Gerusalemme: un manufatto di grande potenza, oggetto di ammirazione e di compiacimento, del quale non è rimasta pietra su pietra. È un fatto che avvenne storicamente nel 70 d.C. ad opera dei Romani. L’evangelista Luca lo tratteggia con il linguaggio e le immagini consuete della letteratura apocalittica, inserendoci suggestioni che alludono anche alla fine del mondo, perché tale era considerata la impensabile ed incredibile distruzione del tempio santo del Dio vero a Gerusalemme. Questo esempio che Gesù porta, con il suo corteggio di violenze e di persecuzioni, è in funzione della perseveranza nella fede che i discepoli, perseguitati per il nome cristiano, dovranno avere. Perirà tutto intorno a voi, dice Gesù ai suoi, “ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”.
È una parola, quella di Gesù, che dà ragione anche di quella nota identificativa della Chiesa che è una, santa, cattolica, apostolica e – dice la storia – anche perseguitata. Se è perseguitata per colpa propria, la persecuzione è purificazione e salvezza; se è perseguitata per odio del nome cristiano, la persecuzione è aureola di gloria, e il sangue dei martiri è seme di cristiani. Andando oltre il dato di fede, possiamo dire in questo caso che anche la scienza conferma che il mondo in cui abitiamo finirà: è la cosiddetta legge dell’entropia, che parla del degrado graduale dell’energia nel sistema chiuso dei mondi in cui abitiamo.
Non si tratta di tempi brevi, ovviamente, ma la scienza stessa prevede questa fine che noi ricordiamo sempre con i “novissimi”. Ed anzi, dice la Parola di Dio: Memorare novissima tua et non peccabis (Sir 7,36 e 28,6) a cominciare dalla morte personale e dal giudizio che ne consegue. Alla fine personale della nostra storia e alla fine del cosmo la fede colloca il ritorno del Signore, giudice della storia. Noi viviamo in questa fede, che ci consentirà di vedere, finalmente, quel volto ineffabile di Dio, che abbiamo da sempre atteso e da sempre ricercato: “Di te ha detto il mio cuore: cerca il suo volto! Il tuo volto, Signore, io cerco: non nascondermi il tuo volto” (Salmo 27). E sarà il nostro paradiso.