“L’unità nazionale per i cattolici non è solo processo storico ma anche valore spirituale, perché l’unità di un popolo e di una nazione è unità di intenti, armonia di interessi ricomposti, superamento dell’individualismo, destino comune”. Così il presidente della Acli, Andrea Oliviero, ha sintetizzato l’idea di unità nazionale, aprendo i lavori del 43° incontro nazionale di studi dedicato ai 150 anni dall’Unità d’Italia, dal titolo “Italiani si diventa. Unità, federalismo, solidarietà”, che si è tenuto a Perugia dal 9 all’11 settembre. Italia: una nazione incompiuta. “L’Italia – ha proseguito Oliviero – è una nazione imperfetta, incompiuta, perché incompiuti sono ancora gli italiani. Per diventare italiani bisogna anzitutto sentirsi cittadini”. Occorre, quindi, “lasciarsi alle spalle l’Italia del tirare a campare, l’Italia degli insofferenti alle regole e insofferenti al bene comune. La somma degli individualismi personali o localistici non fanno una nazione”. Per il presidente delle Acli “diventare italiani è una grande impresa che non riguarda solo la classe dirigente politica ma tutti noi”. Oliviero ha rivolto anche un pensiero ai giovani, dicendo che “bisogna trasmettere loro una fiducia che faccia capire che spendere i propri talenti non è questione di successo individuale ma di crescita collettiva”. Federalismo virtuoso. Federalismo sì, ma a patto che sia virtuoso. Questa è la visione del federalismo cattolico, che affonda le sue radici nel pensiero di don Luigi Sturzo. “L’egoismo di ceto o di territorio non ha mai fatto parte della nostra cultura politica”, ha sottolineato nel corso del suo intervento mons. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia. Pertanto “federalismo virtuoso significa conoscenza del proprio territorio e capacità di crescita autonoma, lotta agli sprechi ed equa imposizione fiscale, ma soprattutto, rendiconto di come vengono spesi i soldi pubblici”. Questa concezione di federalismo implica che “non si dovrà cedere all’egoismo di zone più progredite verso quelle più povere. Il federalismo non dovrà affievolire la forza dello Stato centrale nelle materie di sua competenza, anzi dovrà renderlo più efficiente nel seguire i propri compiti, per il bene comune”. “Siamo in un tempo dove non si studia il futuro. C’è una mancanza di visione: la politica e la cultura non si parlano più da tempo”. Questo, secondo Andrea Riccardi, storico dell’Università Roma Tre, intervenuto al convegno Acli, è il vero male di cui soffre l’Italia di oggi. Per guarire bisogna che i cattolici si impegnino a creare una nuova classe politica, in grado di trovare le “parole giuste”. Per farlo, secondo lo storico, dovranno prendere sul serio l’appello di Benedetto XVI convertendosi a una vita spirituale vera. Questo è il primo passo per ritrovare le parole, ma non basta: “serve cuocere queste parole nella sfida bruciante della crisi dell’economia e della famiglia”. Per Riccardi, il compito dei cattolici in questa fase storica è quello di “provare a dire in tutte le sedi, con le parole giuste, che cosa è l’Italia, cosa è stata e come vogliamo che diventi”. In buona sostanza “i cattolici devono fondare una nuova cultura politica”. In fondo, ritrovare lo “sguardo lungo” della politica – che non si sofferma solo sulle questioni del presente ma sa progettare il futuro – non è compito solo di alcuni, di una élite del pensiero o del potere finanziario, ma è compito di tutti i cittadini, nessuno escluso. Del resto, ha sottolineato mons. Bregantini, “solo così è possibile capire perché la mafia si è consolidata anche al Nord. Spesso le realtà del Sud sono state lasciate sole a combattere la Piovra, pensando che il problema fosse locale, non nazionale” e allora “non ci vuole molto a capire che la questione meridionale deve diventare questione nazionale, come ben richiedeva don Sturzo”. È così, secondo il presidente della Commissione episcopale, che “vanno impostate le celebrazioni dei 150 anni dall’Unità nazionale”. Alcuni passagi dell’’intervento del Presidente della Ceu al convegno delle AcliNessuna identità è possibile senza il confronto e il dialogo con le altre. E questo sconfigge in radice ogni totalitarismo religioso, ogni fondamentalismo. Essi sono tali, infatti, quando si sentono talmente gratificati della pienezza della verità da non avere più il bisogno dell’altro o da non avvertirne la mancanza. È in questa prospettiva che vorrei spendere una parola sulla “laicità”, affrontata anche in questa tavola rotonda. Sappiamo bene che il termine “laicità” ha avuto lungo la storia diversi significati. Certo è che le radici del termine affondano nel cristianesimo. Non a caso, la prospettiva della laicità si è affermata solo nei Paesi di tradizione cristiana, sebbene spesso in maniera conflittuale con la Chiesa, non però con la cultura ispirata dal cristianesimo. La laicità ha avuto ed ha comunque differenti declinazioni. Non mi addentro nel dibattito sviluppatosi in questi ultimi tempi. E mi fermo solo ad accennare alla laicità come metodo di pensiero e di atteggiamento che aiuta sia la fede che la ragione a non cadere in pericolosi estremismi. Credo ormai vecchia e priva di futuro la polemica sulla laicità intesa come un contenuto da contrapporre alla religione. La laicità, lo ripeto, va compresa sul piano metodologico più che su quello contenutistico. In questo orizzonte, laico è colui che non rifiuta né deride il sacro, semmai è colui che lo discute, che lo interroga, che si mette di fronte al senso del mistero che il sacro porta con sé. Ed è laico anche ogni credente che non è superstizioso, che non è fanatico, che non è arrogante, che non è chiuso alla ricerca di una verità sempre più chiara e piena. È laico altresì ogni non credente che non assolutizza e non idolatra il proprio relativo punto di vista e la propria ricerca. Il laico non credente sa invece riconoscere la profonda analogia che lo lega alla domanda del credente e alla sua continua ricerca del vero e del bene (…). Il credente, pertanto, ha il diritto-dovere di operare nella e per la società. Certo, non lo fa con argomenti presi dalla dialettica democratica. In tal senso si potrebbe dire che i cattolici si addentrano nel dibattito democratico “senza il Vangelo”, nel senso di non portare argomenti religiosi per difendere scelte economiche, politiche o tecniche. Nel restare fedeli al Vangelo non ricevono da esso indicazioni tecniche di comportamento (…). Questo comporta, o può comportare, dibattiti anche all’interno della stessa comunità cristiana, salvo quando si toccano valori irrinunciabili. Ma è fuor di dubbio che il credente debba adoperarsi in ogni modo, nel rispetto delle regole della democrazia, per tradurre nella vita della società ciò che a lui appare la cosa migliore non per se stesso ma per il bene comune. Entra in gioco qui la tensione al bene comune dell’intera società. Purtroppo negli ultimi decenni, le classi dirigenti del nostro Paese, cattolici compresi, spesso hanno dimenticato di dibattere su quale Paese si vuole edificare. Ci siamo fermati troppo a discutere di riforme elettorali e anche costituzionali, senza dubbio importantissime, ma tralasciando l’interrogativo per costruire quale società si richiedono tali riforme. Tale preoccupazione purtroppo è stata per lo più assente. Eppure è proprio qui il cuore dell’impegno per il “bene comune” che Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in veritate. E per i cristiani tale impegno affonda le radici nella fede. Essi sono chiamati ad impegnarsi nella cosa pubblica proprio a partire dalla loro fede, dall’eucarestia che celebrano. (stralcio dell’intervento tenuto al convegno delle Acli a Perugia. Il testo integrale su www.acli.it)
La nazione incompiuta
Era dedicato al 150° anniversario dell’Unità d’Italia il 43° Congresso nazionale delle Acli, tenutosi a Perugia
AUTORE:
† Vincenzo Paglia