Il “popolo di dura cervice” è proprio quel gregge di schiavi che Dio, tramite Mosè, aveva liberato dalla schiavitù politica e che, appena libero, si ritrova a venerare i consueti idoli di metallo fuso, confondendoli con il Dio della liberazione. A liberarli da questa ulteriore e umiliante forma di schiavitù è ancora Mosè, che intercede misericordia da Dio dicendogli: “Ricordati” di quel che hai promesso e fatto per i loro padri! “E il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”. La stessa cosa dice di sé Paolo, nella seconda lettura: questa volta è lui a ricordare i suoi trascorsi di persecutore e a meravigliarsi di come la misericordia di Dio gli sia venuta incontro e lo abbia salvato dall’abisso. “Gesù Cristo – conclude Paolo – ha voluto dimostrare in me per primo tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna”. Da persecutore ad apostolo: è tutta solo grazia.
C’è motivo per passare tutta la vita a dire grazie per questo intervento di Dio che fa nuove tutte le cose. Il Dio cristiano non è il Dio dell’ira e della vendetta, ma il Dio della misericordia. In questo annuncio dell’amore misericordioso di Dio è possibile riassumere tutta la predicazione di Gesù. Ce ne parla ancora una volta l’evangelista della misericordia, Luca, in una pagina tra le più belle del Vangelo. Sono i peccatori ad accorrere alla predicazione di Gesù e sono i soliti farisei a scandalizzarsi perché Gesù “riceve i peccatori e mangia con loro”. Eppure sapevano già come sarebbe andata a finire questa scandalosa frequentazione: il caso di Zaccheo, che da politicante ladro diventa un benefattore dei poveri dopo aver risarcito i danni fatti, doveva essere ben presente alla loro memoria, ma non li convinceva. A Gesù tocca ritornare sull’argomento con ulteriori esemplificazioni, anche se non c’è peggiore sordo di chi non vuol sentire e capire; e parla loro della misericordia di Dio con il consueto stile parabolico.
La prima parabola è quella del pastore che segue il gregge, da cui una pecorella un po’ svampitella s’è allontanata. Il pastore ne va subito alla ricerca, la ritrova, se la carica sulle spalle per non farla stancare, e “tutto contento, torna a casa e chiama gli amici e i vicini a brindare per questo ritrovamento”: s’era perduta tra le dune del deserto, ma l’ho cercata e l’ho ritrovata! La seconda parabola racconta un caso simile. È una donna, questa volta, che assai spesso è anche la custode della cassa di famiglia dove può versare finalmente altre dieci dramme d’argento, il valore di dieci pecore. Anche lei però smarrisce una dramma, e mette sottosopra tutta la casa per ricercare la moneta smarrita, infilatasi forse in qualche fessura dell’acciottolato. E quando la ritrova ne fa subito partecipi le amiche e le vicine di casa perché ha ritrovato la dramma. E Gesù conclude con riferimento al Padre: “Vi è più gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.
Ma non bastano ancora queste parabole a descrivere l’amore misericordioso di Dio. Ce n’è una terza, quella già letta e commentata in altra domenica, detta del “figliol prodigo” e cioè scialacquone e sciocco, mentre, se un prodigo c’è, è proprio il padre, prodigo d’amore. Questa volta il lieto fine non è soltanto dell’uomo o della donna ma anche del figlio, salvato dall’abisso dell’ignominia, che deve la vita nuova all’ardente desiderio del padre. È il caso di ricordare uno splendido e commovente appello della serva di Dio Madre Speranza di Gesù, fondatrice dell’opera dell’Amore Misericordioso di Collevalenza: “Che gli uomini conoscano Dio non come un Padre offeso per le ingratitudini dei suoi figli, ma come un Padre buono che cerca con tutti i mezzi la maniera di confortare, di aiutare e di far felici i suoi figli e che li segue e li cura con amore instancabile come se Lui non potesse essere felice senza di loro”. Oggi, tempo di grande smarrimento, è anche tempo di misericordia e di perdono. Anche questo linguaggio fa parte della nuova evangelizzazione.