Lo Spirito santo di Dio, cioè l’Amore innato che lega tra loro Padre e Figlio (mistero trinitario), è il dono che Gesù risorto fa alla sua Chiesa perché la guidi nelle vie non facili del discernimento, innanzitutto, e quindi dell’imitazione di Cristo e del discepolato. È stato necessario coinvolgere lo Spirito sin dalle origini in una decisione di fondamentale importanza per lo sviluppo della Chiesa nel mondo pagano: continuare nella tradizione ebraica della circoncisione dei bimbi maschi, che era non solo una consacrazione all’Eterno, ma una iniziativa identitaria dell’ebraismo? O interromperla e sostituirla con il battesimo, che è segno dell’evento pasquale del Signore, e quindi di morte al peccato seppellendolo nell’acqua, ed insieme segno di risurrezione e di rinascita dall’acqua a vita nuova, la vita dei figli di Dio, fratelli di Cristo, membri della grande famiglia che è la Chiesa? Gli apostoli, ritrovatisi insieme per una riunione a Gerusalemme, che a buon diritto può essere considerata il primo Concilio della Chiesa, decisero, “lo Spirito santo e noi”, la linea pastorale da seguire, cercando di comporre le differenze in un unico criterio operativo: cosa che avvenne con la formula di composizione adottata.
Dall’esperienza fatta Paolo trasse motivo, scrivendo alla comunità cristiana di Tessalonica, per chiedere di “non spegnere lo Spirito” (1 Tes 5,19), invitandola anzi a “non disprezzare le profezie”, e cioè le valutazioni del presente fatte da persone carismatiche, ed anzi a “vagliare ogni cosa e a tenere ciò che è buono”. Paolo quindi non teme tanto l’innovazione, quanto la divisione, lo scisma, la rottura. Ogni manifestazione dello Spirito va innanzitutto vagliata con il metro della carità e va accolta con simpatia. Un comportamento del genere vale moltissimo anche oggi, tempo di innovazioni nella Chiesa (penso alle esigenze di una nuova evangelizzazione, ai ministeri laicali, alle unità e zone pastorali, ai movimenti ecclesiali che continuano ad essere censurati, alle nuove forme di volontariato caritativo ecc). La Chiesa non è una mummia del I secolo d.C., ma un organismo vivo che si evolve e si sviluppa. Anzi nella sua pienezza escatologica, di cui parla la lettura dell’Apocalisse, si rivela come un dono “che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio che la illumina”; e Cristo, l’agnello pasquale immolato e risorto, è la sua unica lampada.
Una realtà, quindi, che nasce come ricerca di fede e si sviluppa e si rivela come dono: la famiglia di Dio, la Sposa di Cristo, la vera Nomadelfia, la Nomos–adelphòs dove l’unica legge è l’amore. (Incidentalmente ricordo la fondazione omonima d’un grande prete: don Zeno Saltini). Parlare della società dell’amore, e quindi della “civiltà dell’amore” come diceva Paolo VI, non è un romanticismo di maniera, ma è la descrizione della intima natura della Chiesa e del suo fine ultimo. È di questa civiltà che il mondo ha bisogno. Questa nostra terra, dono anch’essa di Dio, ha conosciuto tante civiltà e tante culture, ma anche tante vergogne ignominiose: basti pensare ai genocidi del secolo scorso, il cosidetto secolo breve, ricco di scoperte scientifiche e di tecnologie strabilianti, eppure con una carestia d’amore che stride orribilmente con il “progresso” vantato.
È veramente tempo d’una Nomadelfia diffusa, quella che i credenti in Cristo sono chiamati a realizzare in tutta la filiera delle sue varie sfaccettature. Una Nomadelfia che inizia già nell’esperienza terrena: “Se uno mi ama e osserverà la mia parola, il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ogni credente sarà, già su questa terra, città di Dio, come dicevano i Padri della Chiesa: “Ego, Ecclesia…” (Io, Chiesa). E nella Chiesa, quindi in ogni cristiano, si incontra Cristo: lo si vede nel comportamento, nella capacità di amare, di sorridere, di commuoversi, nella testimonianza serena della sua fede, nella pulizia morale della sua vita. E per loro c’è la pace, che non è quella del mondo fatta per lo più di vita godereccia e spensierata, ma quella che raggiunge il cuore e lo fa mite e umile come quella di Gesù. Per questo, “non abbiate paura!”. È con questo saluto che ci ha lasciato Giovanni Paolo II cinque anni or sono, quando ha concluso il suo calvario ed è asceso al Padre.