Veniamo tutti dal deserto delle nostre schiavitù e sentiamo il bisogno d’una liberazione. Nella prima lettura si ricorda la fine della schiavitù politica degli Ebrei e del cammino defatigante nel deserto, quando il popolo degli ex schiavi pose piede nella Terra promessa, al seguito di Giosuè. La Pasqua da essi subito celebrata nelle steppe di Gerico segnò la gioia della libertà riconquistata. C’era ancora ovviamente la fatica del lavoro, ma un lavoro da uomini liberi che sanno e che vogliono, non da schiavi guidati con comandi urlati. Solo chi è libero davvero (dai suoi peccati, dalle sue paure, dai suoi condizionamenti…) può sperimentare appieno la gioia di essere libero e di poter benedire il Signore in ogni tempo. Più tardi Gesù dirà che la verità ci farà liberi (Gv 8,12).
Anche se parlava di sé e della libertà dal peccato da lui promossa, l’assioma vale per se stesso. Il male è menzogna che ci illude e ci imprigiona; la verità è solare e demitizza ogni illusione. È la verità quindi che ci fa liberi. E Gesù è già per se stesso la Verità, così com’è la Via e la Vita (Gv 14,16). Le parole di Paolo nella sua lettera alla comunità di Corinto fanno tenerezza. Non è un giudice, ma è un padre che scrive, e che ricorda la identità nuova dei battezzati. In Cristo si diventa creature nuove e, se fosse intervenuto il Maligno a riportarci a vecchie abitudini, gli apostoli hanno il potere di riconciliare i peccatori con Dio. Paolo è talmente intenerito dinanzi ai figli da lui generati alla fede, da dire: “Per mezzo nostro è Dio stesso che vi esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
È una riconciliazione per la quale non occorre pagare alcun supplemento di prezzo, perché è già stato pagato tutto in anticipo sulla croce di Cristo, il quale “è stato fatto peccato in nostro favore”. Ed anche quella “penitenza” di cui si parla nel sacramento della confessione non è la punizione per uno sbaglio fatto, ma una presa di coscienza del proprio errore nel momento dell’abbraccio del Padre; è il canto della gioia e della gratitudine per aver ritrovato la via di casa. Un’po’ come il banchetto di festa per il figliol prodigo, che sperimenta la giustizia del Padre come un abbraccio di pace. Ed eccoci finalmente, con il brano del Vangelo, alla pagina più bella e commovente che Gesù abbia saputo inventare per parlarci dell’amore di Dio nei nostri riguardi. È la storia d’un figlio che si ribella al padre, pretende la sua parte di beni ereditari, e se li va a giocare tutti “vivendo in modo dissoluto”. (Anzi il fratello maggiore dirà con più verismo: “ha divorato le tue sostanze, padre, con le prostitute”).
Un bel giorno, finito il gruzzolo – che doveva esser piuttosto pingue, se il padre aveva al suo servizio dei salariati -, per colpa anche d’una pesante carestia, il giovane vanesio cominciò a trovarsi nel bisogno e fu costretto a mettersi al servizio di un padrone, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci ma senza dargli neppure la razione del cibo del giorno, per cui fu costretto a leticare con i porci per trafugare un po’ di carrube e sfamarsi. Allora ritornò in sé: per la fame, ovviamente, neppure per il dolore arrecato al padre e alla sua famiglia; e carico di fame, più che di vergogna, tornò da suo padre.
Fu il padre stesso, preavvisato dal cuore, ad accorgersi di lui: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Sono cinque verbi che indicano il modo di pensare e di agire di Dio nei riguardi di chi ritorna a lui dopo una vita dissennata. Ma la misericordia del Padre è ancora più prodiga d’affetto, amore che azzera una vita sbagliata per ridare la piena dignità di figlio (l’anello, la veste, il banchetto, la festa) a chi l’aveva bistrattata con l’effimero del Maligno che non dà pace. Se credessimo di più a questo amore paterno!