Il Vocabolario avrebbe più di qualcosa da farsi perdonare dalle donne. È passato il tempo, oltre un secolo fa, quando il Vocabolario di Pietro Fanfani edizione 1905 dava per dottoressa la definizione: “Donna addottorata; donna savia e dotta; donna saccente, donna che parla con una certa presunzione di ciò che non sa e non intende. Far la dottoressa, vale sdottoreggiare”. Fortunatamente molte cose sono cambiate. Zingarelli è stato tra i primi. Garzanti è il più “aperto” a questa piccola rivoluzione linguistica, estendendo al femminile parole – ad esempio camerlengo, vescovo – da altri dizionari ritenute ancora “intoccabili”. Ma tuttora resistono nelle pagine del Vocabolario definizioni ed espressioni improntate a una certa forma di sessismo a senso unico che, anche nella lingua, è difficile a morire. Quando continuiamo a leggere, alla voce genere, definizioni di genere umano come “l’insieme degli uomini”, viene spontaneo domandarsi: e le donne? Non fanno parte del genere umano? Lo stesso per umanità. Zingarelli, bontà sua, solo nella ristampa 2009 ha integrato le definizioni relative a queste due voci con l’aggiunta delle donne, finalmente “ammesse” – alla buon’ora! – a far parte del genere umano e dell’umanità insieme agli uomini. La colpa, ovviamente, non è del Vocabolario. I vocabolari, finora, sono stati concepiti dagli uomini, intendendo per “concepimento” quello originale, l’idea di partenza, anche se poi – specialmente nell’epoca attuale – molte sono le donne che “fanno” il Vocabolario. Però, ecco, se qualche donna, tra le linguiste, e ce ne sono di veramente brave, prendesse il coraggio a due mani e si decidesse a concepire ex novo un Vocabolario della lingua italiana, forse chissà, si farebbe un passo avanti nella “pari opportunità” anche nei confronti della lingua, eliminando quella punta di sessismo che ancora serpeggia nei vocabolari. Senza contare che il Vocabolario concepito da una donna – non certamente solo per le donne ma per tutti – potrebbe essere una novità tale da costituire un successo editoriale. Nonostante le trasformazioni del costume e della società, c’è ancora resistenza da parte di molti ad accettare la declinazione al femminile di mansioni e professioni una volta esclusivo appannaggio degli uomini. Più che una regola, si segue l’impressione personale, a seconda che il femminile “suoni” bene o no: accettiamo tranquillamente professoressa, maestra, infermiera e così via. Ma il nostro orecchio ancora non è abituato a soldata, sindaca, ingegnera, vescova (nel caso di Chiese protestanti), ministra. Parole pure “autorizzate” dai vocabolari. Gli equivoci, gli errori di concordanza nel discorso causati da questa ostinazione a privilegiare il maschile al corrispondente femminile, quando si parla di una donna, sono all’ordine del giorno. Ricordiamo, uno per tutti, il “ministro turco” (letteralmente così per chi ascoltava), che altri non era se non l’italianissima Livia Turco, la quale appunto per evitare fraintendimenti con la Turchia desiderava essere chiamata ministra. Ma a chi lo andava a dire? Se anche le donne, molte volte, preferiscono il maschile al corrispondente femminile. Chiamate direttrice una donna che dirige un giornale, ed è il caso che si offenda. L’8 marzo è la festa della donna. Le donne hanno dovuto affrontare battaglie coraggiose per vedere riconosciuti alcuni loro diritti. Ma le battaglie si combattono anche sul fronte della lingua. Viva tutte le donne che hanno il “coraggio” di chiamarsi e farsi chiamare ministre, deputate, avvocate, procuratrici e direttrici senza nascondersi e nascondere la propria identità dietro un sostantivo al maschile! L’8 marzo sarà veramente la festa della donna anche quando “ministra” sarà accettato da tutti e non suonerà strano per nessuno, uomini e donne.
L’8 marzo del dizionario
Festa della donna dal punto di vista del “maschilismo” di tante nostre parole
AUTORE:
Piero Isola