Tutti siamo in grado di riconoscere intorno a noi la vera e falsa religiosità; ci riesce più difficile discernere in noi stessi gli atteggiamenti corrispondenti all’una e all’altra situazione. Oggi il vangelo ci invita ad un sano discernimento personale presentandoci due esempi: quello ipocrita degli scribi e quello generoso di una vedova povera. L’insegnamento di Gesù inizia con un ammonimento: “Guardatevi dagli scribi!”, cioè guardatevi dall’assumere convinzioni e atteggiamenti simili a quelli dei dottori della legge, i rabbini. Gesù non intende generalizzare, mettendo alla berlina tutta la categoria degli scribi; vuole solo stimmatizzare i comportamenti che alcuni di loro ostentavano, divenendo emblemi di una religiosità falsa e urtante.
Il comportamento di queste persone è descritto da Gesù con ironia sferzante in cinque atteggiamenti caratteristici: la vanità, la notorietà, la preminenza, lo sfruttamento, la pietà ostentata. Al primo Gesù pone la vanità che induce gli scribi a comportarsi come modelli sempre in passerella, vestiti a festa, con vesti drappeggiate e variegate. Gesù allude forse al Tallit, il mantello della preghiera di colore bianco ma ornato di bande colorate e di ricche frange, usato ancora oggi, sia pure in forma ridotta. Alla vanità Gesù aggiunge la sete di notorietà, una specie di ricerca maniacale di ossequio pubblico nelle vie e nelle piazze; desideravano essere riveriti, acclamati e venerati dalla gente, non importa se per amore o per timore. Questa ostentazione di preminenza e di superiorità li portava all’occupazione dei primi posti nei banchetti e nelle sinagoghe.
Nei banchetti i posti di onore erano quelli più vicini al padrone di casa, nelle sinagoghe erano le sedie della prima fila dotate di braccioli e magari leggermente rialzati. Il colpo di frusta Gesù lo sferra quando li dipinge come sfruttatori delle vedove, la categoria di persone più indifesa. Essendo esperti della legge, si proponevano come avvocati difensori nelle interminabili cause di eredità, esigendo poi ricche parcelle. Ultima pennellata è costituita dalla loro ostentazione di devozione e di santità. Ha un che di umoristico, nel quadro realistico dipinto da Gesù, vederli pregare a lungo in maniera ipocrita “nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, stando ritti per esser visti dalla gente” (Mt 6,5). Gesù li definiva “sepolcri imbiancati, che all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume” (Mt 23,27). A questo quadro negativo di ironia sferzante l’evangelista abbina un simpatico quadretto positivo, preso dal vivo, che ha per protagonista una vedova povera, una di quelle che gli scribi sfruttavano e disprezzavano. Gesù conclude così in maniera graziosa i suoi discorsi polemici con le autorità giudaiche di Gerusalemme.
Siamo nell’atrio interno del Tempio, chiamato cortile delle donne, dove era collocata la “stanza del tesoro” (in greco gazofylakion). Ce lo indica lo storico Giuseppe Flavio (BJ V,5,2). Altri testi rabbinici ci informano che qui erano collocate 12 grosse casse destinate alla raccolta delle offerte per il culto del santuario. Ogni cassa aveva un’apertura a tromba per introdurre le monete, che scivolavano dentro tintinnando. Nella stanza c’era un sacerdote addetto a riscuotere le tassa del tempio e a registrare eventuali donazioni di gioielli e oggetti preziosi. Gesù è seduto con i discepoli proprio di fronte a quella stanza e osserva l’andirivieni delle persone che vengono a deporre la loro offerta. Le monete di valore rilasciate a manciate dai ricchi fanno grande fracasso, scorrendo e suscitando l’ammirazione dei presenti. Ad un certo punto compare una vedova povera, riconoscibile dai vestiti logori. Gesù la punta con attenzione e simpatia particolari. Forse gli ricorda sua madre. La donna scioglie il piccolo nodo del fazzoletto e tira fuori le uniche monete che ha: sono due lepta, due spiccioli di rame, le monete più piccole allora in circolazione.
Marco spiega ai suoi lettori romani che la loro somma equivale ad un soldo, cioè un “quadrante”, la minima misura monetaria usata a Roma. Meno di così non si poteva dare, ma Gesù commenta che più di così non si poteva dare, perché quella vedova “aveva dato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Aveva scoperto in quella creatura le vere dimensioni nascoste della sua offerta. Guardando la generosità di quella vedova non poteva fare a meno di pensare alla vedova di Sarepta, una dotta ridotta all’estrema miseria, che diede ad Elia quanto aveva in casa per sé e per suo figlio: un pugno di farina e poche gocce d’olio.
Dietro invito del profeta la donna impastò la farina e ne compose una focaccia che portò all’uomo di Dio. L’episodio è riferito dalla prima lettura di oggi presa del I Libro dei Re (17,10-16). Quella donna si era fidata di Dio e da quel giorno “la farina nella giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì”. Così Elia, perseguitato e braccato, poté trovare alloggio in quella casa ospitale. Ambedue le vedove sono donne di fede grande: rischiano tutto, ponendo la loro speranza solo nella provvidenza di Dio. Gesù aveva inculcato ai suoi discepoli questa fede assoluta e ora la può mostrare in concreto in quella vedova incontrata per caso nella casa del Padre. Gesù nel Discorso della montagna aveva detto: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo di quello che indosserete. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Il Padre vostro celeste, infatti, sa di che cosa avete bisogno.
Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,25-33). Quella donna, che pur non aveva ascoltato il Discorso in Galilea, lo stava ugualmente vivendo per istinto di fede. Ebbe perciò la lode di Gesù. Le due parti del vangelo che abbiamo commentato stabiliscono un chiaro confronto valido ancora oggi per tutti noi. Da una parte viene criticata una religiosità vanitosa, dall’altra parte viene lodata una fede forte nascosta e discreta; da una parte c’é l’avarizia insaziabile di chi approfitta dei deboli, dall’altra c’è la generosità totale senza calcoli. Gli scribi inseguono la notorietà e i privilegi, la vedova cerca il nascondimento e la modestia. Gli uni ostentano devozione con lunghe preghiere, la donna pratica la carità effettiva senza far sapere alla sua sinistra ciò che fa la sua destra (Mt 6,3). Forse dovremmo andare a scuola di fede e di speranza dagli umili che le praticano senza suonare la tromba davanti a loro. Ogni parrocchia ne ha qualcuno. Il rischio dei maestri è la presunzione di insegnare ciò che essi non praticano. Il vangelo di oggi insegna.