Dal 16 al 18 ottobre, a Gubbio ritorna Altrocioccolato, la manifestazione che promuove i prodotti e le ragioni del commercio equo e solidale, in particolate il cioccolato. Ideata in alternativa a Eurochocolate, della quale contesta in particolare la presenza delle multinazionali, non compensata dallo spazio che la manifestazione del patron Guarducci concede al Fair Trade, una delle reti del commercio equosolidale.
La rassegna eugubina si è presentata anche quest’anno come “alternativa” ad Eurocholate non tanto nei numeri quanto nella filosofia che la anima. Ne abbiamo parlato con Marco Casodi, responsabile della manifestazione Altrocioccolato. Altrocioccolato ed Eurochocolate sono due manifestazioni sul tema del cioccolato, quali sono le differenze principali tra le due e le idee che stanno dietro Altrocioccolato? “Le differenze principali consistono soprattutto nel cioccolato che si vende. Nel senso che, da una parte, ad Altrocioccolato si vende il cioccolato equo e solidale; mentre ad Eurochocolate gli attori pricipali che mettono in vendita il loro cioccolato sono multinazionali. Tra queste, purtroppo, c’è Nestlè, che è una multinazionale sotto boicottaggio internazionale da oltre trent’anni. Quindi da un parte c’è un manifestazione prettamente commerciale che non si fa alcun tipo di remora a far partecipare soggetti in qualche modo moralmente discutibili; dall’altra parte, ad Altrocioccolato gli attori principali sono soprattutto i produttori di cioccolato equo e solidale”.
Che cos’è il commercio equo e solidale e come si concretizza? “Il commercio equo e solidale, lo dice la parola, intanto è un commercio, è un tentativo di intervenire sulle disparità esistenti nel mondo, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, utilizzando un mezzo tradizionale appunto qual è il commercio. Ma il motivo fondamentale del mio impegno, da anni, sta nel fatto che non si fa elemosina, ma c’è un disegno ben preciso: c’è un’attività vera e propria che deve reggersi; altrimenti, se non si trova il modo di farla funzionare, decade. Infatti a volte ci sono progetti che vengono abbandonati perché non hanno appigli sul pubblico, o comunque non riescono a rispettare le regole proprie del commercio. Dall’altra parte però, è un commercio equo e solidale, appunto: il discorso di fondo è che ai produttori viene ricosciuto il giusto prezzo per il loro lavoro, e per il prodotto che producono. C’è una differenza notevole rispetto al commercio tradizionale, differenze di riconoscimenti economici veramente alti: a fronte di un 5 per cento che mediamente viene pagato dalle multinazionali ai produttori del Sud del mondo, il commercio equo e solidale riconosce al produttore circa un terzo di quello che è poi il prezzo finale del prodotto che viene venduto al pubblico. Questo chiaramente comporta che gli introiti sono molto più bassi e che il commercio equo e solidale sia sempre un po’ lievemente in sofferenza. Inoltre c’è sempre bisogno del lavoro dei volontari, oltre a quello delle poche persone professionali e pagate. In definitiva i guadagni sono bassi e sicuramente non ci si arricchisce”.
Che cosa si può dire sulle centrali d’importazione? “Mentre le botteghe sono dei punti vendita, le centrali sono dei soggetti più grandi che vanno nel Sud del mondo, creano le condizoni, oppure favoriscono il rafforzamento di situazioni già esistenti affinché si arrivi alla produzione di qualche bene, poi lo importano e commercializzano in Italia. Questa commercializzazione avviene attraverso vari canali; da un po’ di tempo le centrali d’importazione si sono collegate anche alla grande distribuzione organizzata. È possibile trovare prodotti equo e solidali anche alla Coop, al Conad o all’Esselunga. Le botteghe sono il mezzo storico, tradizionale di vendita dei prodotti del commercio equo e solidale; in Italia ce ne sono circa 500, di cui 350 collegate a Ctm – Altromercato che è di gran lunga la più grande centrale d’importazione esistente in Italia, ma anche una delle più importanti nel mondo. Questa rete di botteghe è anche l’aspetto più peculiare del commercio equo e solidale in Italia; se vai all’estero, troverai prodotti del commercio equo e solidale soprattutto nella grande distribuzione, non esiste una rete di botteghe. Questo da un lato è un punto di forza, una particolarità che riesce a mantenere vivo il carattere ideale del commercio equo e solidale; dall’altro lato è un po’ un punto a sfavore, nel senso che la rete di botteghe del commercio equo e solidale fa sempre fatica a sostenersi, poiché i punti di vendita sono dedicati esclusivamente a questo tipo di bene”.
Quali sono le reti del commercio equo e solidale a cui fanno capo le botteghe umbre? “Tutte le botteghe prendono i prodotti del commercio equo solidale da tutte le centrali, poi chiaramente ogni bottega sceglie un partner ottimale. Per noi di Perugia, per esempio, l’essere collegati a Ctm – Altromercato rappresenta una scelta di campo, fatta anche da un punto di vista ideale, nel senso che Ctm è un consorzio vero e proprio: ci sono incontri annuali dove i soci hanno voce in capitolo, tutti i piani economici di sviluppo vengono discussi per mesi e c’è una forte partecipazione. Le altre centrali d’importazione non hanno queste caratteristiche, un po’ per le dimensioni, perché sono notevolmente più piccole. Parliamo di differenze di fatturato consistenti: Ctm – Altromercato fattura circa 35 milioni di euro l’anno, mentre le altre non raggiungono il milione. Siamo ad altri livelli, e quindi non hanno neanche, forse, la possibilità di tessere una rete, e costruire un processo decisionale di questo genere. Il Ctm è un consorzio che, pur inglobando nuovi soci, dà sempre molto peso ai soci storici”.