Superficialone

Abatjour

Non fare il medico se non hai studiato la medicina: me lo ripeteva spesso mio padre, tanti anni fa, e io in tutti questi anni non mi ero reso conto di quanto grande fosse lo spettro di verità che contiene quell’aforisma. Non fare il medico se non hai studiato la medicina e non t’azzardare a commentare un’opera lirica se non ne hai approfondito tutti gli aspetti. Venerdì 8 ottobre ho avuto modo di assistere, al Lyrik di S. Maria degli Angeli, alla rappresentazione di Rigoletto. E mi sarei volentieri pericolato a commentarlo per un gruppo di amici assortiti, se Marco non me ne avesse dissuaso. L’avrei fatto senza pensarci due volte, in nome di quella confidenza che nutrivo nei confronti di Verdi Giuseppe e che invece Giuseppe Verdi non contraccambiava affatto. Me lo ha fatto notare Marco: “Tu ascolti l’opera con intenti esclusivamente ludici, come se fosse un’operetta… ma non ti sembra troppo poco?”.E ancora: “Ma non ti sei reso conto, tu che parli e straparli di handicap come fonte di emarginazione, con quale potenza rappresentativa Verdi ha affrontato proprio questo tema?”. Effettivamente. Mea culpa; forse non proprio maxima (il Padreterno ha ben altro da perdonarmi! Purtroppo!), ma sicuramente mea. Mi sono sentito un superficialone“Ah! La maledizione”. L’acuto agghiacciante del baritono, con il quale si chiudono il primo e il terzo atto, fa certo riferimento all’esecrazione che un condannato a morte aveva lanciato contro il buffone Rigoletto che lo aveva irriso mentre lui saliva il patibolo; ma più ancora fa riferimento alla drammatica situazione storico / culturale del protagonista. Rigoletto è un disabile che pretende di avere una vita normale. Impossibile. Vietato. La società non lo permette. Lui vuole una vita sua, una sessualità sua, una donna sua, una figlia sua. Niente. Impossibile. Vietato. La società non lo permette. E i cortigiani si rivelano fino in fondo una “vil razza dannata”, quando, resisi conto che la donna che Rigoletto ha in casa non è la sua amante, ma sua figlia, si incaponiscono ancora di più a rapirla. E a lui non resta che affidare a Giovanna, un donna indifesa come lui, quel suo unico fiore prezioso: “Veglia, o donna, questo fiore…”!E proprio questo brano ho voluto riascoltare, una volta tornato a casa. “Veglia o donna questo fiore / che a te puro confidai…”, e ho pensato con un fremito profondo all’infinita teoria di fratelli uomini che nei secoli, per tentare di stornare dalla loro vita la malvagità di altri uomini, hanno potuto fruire solo del flebile fiato di una preghiera che nessuno avrebbe ascoltato. Quanti dei miei “ragazzi”si portano dentro una tragedia del genere? Solo un mondo finalmente a misura del progetto che Dio ha su di esso potrebbe dare risposta a quella richiesta. Ma quel mondo, non che avvicinarsi, sembra allontanarsi sempre di più. 

AUTORE: A cura di Angelo M. Fanucci