Immigrazione e prospettive dell’integrazione. Un problema di autocensura?

Il giro nelle quattro città umbre fatto con il progetto Voci dal Mondo ha mostrato l’enorme potenziale di impegno per l’accoglienza dei migranti. Alquanto minore è sembrato lo spazio che il sistema complessivamente considerato sembra avere avuto, e possa avere d’ora in poi, per l’integrazione, nelle sue variabili accezioni.

Migranti, superare il sistema assistenzialistico

Molti assessori hanno riflettuto su tale aspetto. In sintesi, la proiezione in avanti dovrebbe essere rappresentata dal superamento dell’approccio assistenzialistico, per pervenire – nelle parole dell’assessore “alle Nuove Cittadinanze” di Perugia, Costanza Spera – all’impegno nel percorso di empowerment di cittadinanza, ossia nell’acquisizione di un’attitudine alla cittadinanza attiva e consapevole: quella cioè che non si ferma alla giusta attesa di un benessere materiale, ma si apre al patto di convivenza civile che è inscritto nell’ “abitare la città”. Un patto che richiede partecipazione, in varie forme, individuale e collettiva.

Il rapporto tra la città e gli immigrati

La questione pertanto va oltre il tema – caldo in queste settimane – della riforma dell’acquisizione della cittadinanza nazionale. Risiede invece nel rapporto che si stabilisce tra la città, nelle sue varie espressioni, e gli immigrati che abbiano un progetto di permanenza, seppure non definitivo. Questo rapporto è molto segnato, in negativo, dalla mission esplicita e implicita che il sistema dell’accoglienza gli ha trasmesso: quella dell’aiuto e dell’assistenza nel corso di quel limbo che chiamiamo accoglienza.

Si tratta appunto di tenere fermo un concetto che diventi linea di condotta per tutti gli attori coinvolti: l’immigrato e le comunità di immigrati non possono collocarsi nella società di nuovo insediamento, più o meno intenzionalmente o consapevolmente, come delle province sociali autonome o, più efficacemente, delle enclaves.

Inclusione e integrazione

Diventa allora inevitabile affrontare il problema del modo in cui intendiamo appunto il concetto e il percorso di inclusione. Molti temono la parola “integrazione”, perché implica, si dice, un rapporto asimmetrico, etnocentrico, quasi di tipo coloniale. E infatti la si trova al centro del dibattito sul multiculturalismo. Ma la si trova solo se guadiamo bene, perché è un dibattito opaco, che soffre di due enormi difetti.

Il primo difetto è quello di avere assunto un carattere ideologizzato, di scontro tra schieramenti politico-culturali armati di apparati simbolici incompatibili: schieramenti contrapposti, per la visione profondamente diversa dei rapporti umani, ma comunque accomunati dall’avere costruito una frattura. Usata per marcare una differenza antropologica, quella che una volta c’era tra fascisti e comunisti, e adesso è tra razzisti e anti-razzisti, tra buonisti e xenofobi, tra sovranisti e cosmopoliti, anche se queste etichette non calzano del tutto per definire adeguatamente le aggregazioni neo-ideologiche che si dispongono in conflitto anche sul piano emotivo-affettivo.

Due utopie a confronto

Si tratta anche di due utopie a confronto. Da una parte quella della separazione e dell’autodifesa identitaria nella globalizzazione, sorretta dal pregiudizio dell’assoluta incompatibilità. Dall’altra l’utopia multiculturalista, quella di un ritrovato sogno di giustizia universale, per capirci un nuovo sol dell’avvenire, in cui ai proletari si sostituiscono i diseredati della terra, sorretto dal senso di colpa per avere sottoposto a sfruttamento secolare quattro quinti del mondo. E qui arriviamo al secondo difetto, quello derivante dal fatto che ideologie e utopie non sono adatte a ragionare sul presente (che cosa fare in concreto), ma neanche sul futuro, generando autocensure e negazionismi di vario tipo. Tra questi, dalle nebbie prodotte dall’incontro tra illusioni e conflitti emerge talvolta, ma poi si risommerge, la domanda su cosa si debba intendere per inclusione/integrazione.

Lo spettro del cosiddetto “assimilazionismo etnocentrico”, che sarebbe tipico del modello francese di integrazione post-coloniale, è stato tante volte usato per ammonire rispetto alla possibilità che l’integrazione nel sistema di regole di una nazione e di uno Stato vada a ledere l’integrità culturale delle comunità migranti. Voglio però qui ricordare la forza della posizione che Jurgen Habermas assunse nel 1998, nel libro Multiculturalismo (e in altri interventi come L’inclusione dell’altro).

Le differenze possono riconoscersi reciprocamente e interagire collaborativamente solo all’interno dell’accettazione di un quadro comune di norme, sia di leggi che di regole sociali discendenti dalle prime in via diretta o indiretta. Se questo accordo sostanziale non ci fosse – e, secondo me, non c’è –, allora la società multiculturale diviene un aggregato instabile e non abbastanza coeso. E il mercato (dal lavoro al consumo) non può certo esercitare una supplenza integrativa; questo vale in generale, non perché stiamo attraversando tante crisi con forte impatto sulle diseguaglianze.

Rimodellare il sistema sociale e giuridico-istituzionale

Certamente, si apre, insieme con la domanda su “quale integrazione”, quella su come il sistema sociale e quello giuridico-istituzionale possano rimodellarsi per trovare un compromesso “giusto” tra nuova comunanza (non più di tradizione e di tendenziale omogeneità identitaria), da una parte, e autonomia comunitaria, dall’altra. L’illusione comunitaristica può giocare un ruolo ingombrante. Con Habermas, occorre che tutte le comunità esercitino una forma di solidarietà basata sul confronto, esercitando un dibattito intorno al proprio stare insieme. Da questo deriva – ora – la necessità di una responsabilità a porsi quella domanda. Ma reciprocamente.

Allora, superando le autocensure, alzando la testa per un momento dal lavoro quotidiano, chi si occupa di sostegno agli immigrati dovrebbe domandarsi e domandare agli altri che cosa intende lui per integrazione; se si è posto il problema; se ha dato per scontate troppe cose; se davvero vuole cominciare a riflettere e confrontarsi sul problema.

Rolando Marini
ProRettore Università per Stranieri di Perugia

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