Quando Gesù operava miracoli, era facile per la gente credere in lui e seguirlo, fino a dimenticare di mangiare. Era accaduto un giorno prima, sull’altra riva del lago, quando egli aveva moltiplicato i cinque pani e i due pesciolini di un bambino per saziare più di cinquemila persone. In quella felice occasione, la gente entusiasta avrebbe voluto addirittura proclamarlo re per acclamazione. Egli si era dovuto sottrarre con la fuga alla morsa popolare Gv 6,15). Ma ora, nella sinagoga di Cafarnao, tutto è completamente cambiato: l’entusiasmo della folla è sbollito gradatamente, man mano che Gesù parla e la gente ascolta le cose per loro misteriose che egli sta dicendo. Ad un certo punto addirittura il tifo iniziale si cambia in protesta e ostilità, fino all’abbandono: “Questa parola è dura; chi può ascoltarla?”. C’è chi rifiuta di ascoltarlo, tanto è grande la delusione e il distacco che le sue parole hanno creato.
Questo terribile voltafaccia popolare Gesù l’ha provato altre volte fino alla vigilia della morte; basta confrontare la domenica delle Palme con il Venerdì sabato. Per l’evangelista questa è la crisi della Galilea, quando la folla si dirada e Gesù resta quasi solo con i suoi apostoli. La crisi è causata dal discorso sul pane di vita. L’eucaristia, se ben compresa, mette in crisi chiunque per il profondo mistero che nasconde, e che agli occhi umani appare assurdo. Tra la folla di Cafàrnao risuona ancora l’altra protesta più esplicita: “Come può costui darci a mangiare la sua carne e a bere il suo sangue?”. Chi sa che queste proteste non scavalchino i tempi e non riescano a scuoterci dal letargo della nostra fede? Ci accorgeremmo quanto siamo superficiali e incoscienti come cristiani nel partecipare all’eucaristia, divenuta, per chi non frequenta mai la chiesa, un gesto da compiere per convenienza o consuetudine, come accettare per cortesia un biscottino. Il vangelo di oggi si muove tutto sul filo di una contestazione che nasce per una debole fede.
Nel silenzio della sinagoga di Cafàrnao, dove Gesù ha appena finito di parlare, risuona la voce sdegnata di un discepolo. Non è uno dei dodici apostoli scelti da Gesù, ma uno dei tanti seguaci spontanei che gli vanno dietro, perché tifosi dei suoi miracoli e del suo modo di parlare. Uno di quelli che hanno detto forse più volte di Gesù: “Nessuno ha parlato mai come quest’uomo, egli parla con autorità e non come gli scribi” (Gv 7,46; Mc 1,22). Quel discepolo gli grida in faccia una protesta clamorosa: “Questo discorso è duro, chi può starlo ad accettare?”. L’intervento non turba più di tanto Gesù, che sa di aver fatto un discorso impegnativo per la fede e conosce bene il cuore dell’uomo. L’evangelista Giovanni, a proposito della gente che seguiva Gesù, attratta dai miracoli, dice: “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome; ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Gv 2,24s).
I fatti prodigiosi danno il brivido del mistero, appagano la curiosità innata e soddisfano il bisogno di contatto con il mondo di Dio, ma, se non provocano il cambiamento del cuore e della vita, sono perfettamente inutili. Dio non vuole curiosi, ma amici e figli. Il grande miracolo sarà quando lo vedranno salire in cielo, lui che è disceso dal cielo. Solo allora potranno credere in lui e alla sua parola che oggi non accettano. In termini diversi, Gesù dice a quelle persone: “Quando io sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (12,34). Solo a Pasqua è donata la fede, solo a Pasqua l’eucaristia assume valore come corpo e sangue del Cristo immolato e risorto. Prima è un discorso troppo duro. Le parole che Gesù ha detto a Cafàrnao furono interpretate in maniera materiale, come se lui volesse dare fisicamente a mangiare la sua carne tangibile e a bere il sangue corrente nelle sue vene.
In realtà egli parlava su un piano diverso, quello divino, perciò poteva dire: “Le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Spiegava così che la sua carne e il suo sangue erano donate a mangiare in maniera spirituale nei segni del pane del vino, perché lo Spirito rende possibile tutto questo. Ciò non vuol dire che la carne e il sangue di Gesù non siano veri, ma solo simbolici; sono reali, ma su un piano diverso da quello materiale visibile ai nostri occhi: lo sono nel mondo soprannaturale dove abita Dio e lo Spirito insieme a Gesù risorto. Egli non sta parlando di cose della terra, ma delle cose del cielo. Nel prendere e mangiare con fede il pane che lui dona, noi siamo trasportati nel mondo di Dio, entriamo nella vita eterna e vi abitiamo, come aveva detto Gesù: “‘Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita terna”. Per chi non crede, queste sono fantasie, ma per chi crede questa è la realtà vera del mondo, non quella visibile che passa e scompare presto come ombra.
Gesù oggi dice a tutti che, per accettare questa visione della realtà da lui prospettata, bisogna credere, ma poi costata con amarezza: “Tra voi vi sono alcuni che non credono”. È inutile dunque insistere, bisogna lasciare al Padre il potere di attrarre a Gesù coloro che non credono, come egli stesso dice: “Nessuno viene a me, se non gli è concesso dal Padre”. Però questa misteriosa concessione del Padre non esclude che ciascuno possa prendere la libera decisione di accettare o rifiutare Gesù. Anzi, siamo obbligati dalla vita e dalla coerenza a fare una scelta chiara ed esplicita di Dio, simile a quella che richiese Giosuè a suoi ebrei entrati nella Terra promessa e narrataci dalla prima lettura (Gios 24).
Gesù la propose ai Dodici apostoli, dopo le larghe defezioni dei discepoli: “Volete andarvene anche voi?”. In contrasto con Giuda che rimane e tradisce, c’è un Pietro che crede e proclama alta la sua fede, pur nei limiti della sua natura vulnerabile. Lo scambio di battute tra Gesù e Pietro è di estrema attualità per noi. Se siamo cristiani, dobbiamo prendere posizione nei confronti di Cristo, specie in quest’epoca di allontanamento di tanti dalla fede. Nessun credente si può oggi vergognare delle proprie convinzioni religiose. Non c’è bisogno di sbandierarle con fanatismo o con atteggiamenti radicali; basta viverle con dignità e coerenza. Oggi è tempo di testimoni: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,32).