Per alcune domeniche la liturgia sostituisce il Vangelo di Marco con quello di Giovanni, più ricco di riflessioni teologiche riguardanti il miracolo del pane. Siamo sempre sulle rive del lago di Galilea dove ci aveva lasciato Marco domenica scorsa. Allora Gesù era sceso dalla barca e si era trovato assediato da una grande folla. Aveva provato una grande compassione per quel popolo che gli appariva disorientato come gregge senza pastore. Da quella compassione era fiorito il miracolo del pane che tutti quattro i vangeli ci raccontano. In quell’accorrere di gente, Gesù udiva il grido silenzioso e drammatico degli affamati del mondo di ieri e di oggi. Nello spazio di duemila anni la folla è cresciuta enormemente insieme al bisogno, così oggi quasi due miliardi di uomini sono privi del necessario per sopravvivere.
È difficile udire questo grido che sale dal mondo dei poveri, nel chiasso assordante della nostra società che, in questi giorni estivi, sta prendendo d’assalto il mare e i monti in cerca di vacanze spensierate. È vero che questo rito estivo sta diventando sempre più impraticabile per molte persone che risentono della drammatica crisi economica che stiamo attraversando. Per assicurarsi il pane molti devono rinunciare forzatamente alle vacanze estive. È un momento prezioso per riflettere sulle nostre abitudini spenderecce e capire il dramma di chi manca dell’indispensabile per vivere. Possiamo farci poco; siamo impotenti come gli apostoli davanti alla fame delle folle che li assediavano. Ma fu un bambino a salvare la situazione con la sua piccola scorta di cinque pani d’orzo, la sua merenda.
Dio attende il nostro modesto contributo per fare il miracolo che noi non sappiamo fare. Il miracolo del pane è visto da Giovanni come il culmine dell’attività di Gesù in Galilea, prima di spostare il centro del suo apostolato in Giudea e specialmente a Gerusalemme. È centrale per capire l’autodefinizione che egli pronuncia a commento del miracolo: “Io sono il pane di vita” (6,35). A Samaria, presso il pozzo di Sicar, si era presentato come la sorgente dell’acqua viva (4,10); a Gerusalemme, nel tempio, si presenterà come luce (8,12). Acqua, pane e luce sono le esigenze più elementari dell’uomo, le cose di cui nessuno può fare a meno. Gesù voleva dire che egli è indispensabile per l’uomo come lo sono l’acqua, il pane e la luce. Di lui nessuno può fare a meno; è questione di vita o di morte. L’iniziativa del miracolo è di Gesù, che chiede però la complicità dei discepoli. Egli rivolge la sua domanda a Filippo come a chiedere consiglio: “Dove potremmo comprare il pane?”.
Il vangelo precisa che l’interrogativo ha carattere pedagogico: vuole sensibilizzare i discepoli sui bisogni materiali della folla che li segue. Gesù si preoccupa di tutto l’uomo, anima e corpo, perciò non si limita a predicare, ma guarisce le malattie e risuscita i morti. Filippo si rende conto dall’enormità della somma da spendere per dare appena un pezzetto di pane a ciascuno, ben poco per togliere la fame arretrata di quella gente. Ma la domanda rivolta a Filippo è udita da tutti i discepoli, tanto che Andrea reagisce presentando a Gesù un ragazzo pronto ad offrire la sua piccola provvista di cinque pani e due pesci, pur precisando: “Ma che cos’è questo per tanta gente?”.
Ambedue i discepoli confessano la loro impotenza davanti al bisogno. Ma i loro interventi contengono la segreta certezza che a Dio nulla è impossibile, specie quando l’uomo gli mette a disposizione la sua piccola collaborazione. Dio chiede consapevolezza e collaborazione. Non vuole far tutto da solo. Chiede ai discepoli di far sistemare comodamente la folla sull’erba verde di primavera. È il tempo di Pasqua, il tempo dell’esodo dall’Egitto, quando si commemorava il miracolo della manna, il pane che Dio aveva fatto piovere dal cielo per nutrire il suo popolo in cammino nel deserto. Il Salmo 23 cantava da secoli, con entusiasmo, quell’evento prodigioso che calzava a pennello con la situazione attuale: ‘Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce, Davanti a me tu prepari una mensa’. Lo stesso Dio dei padri è ora qui, sulle rive del lago di Galilea, per sfamare il popolo che lo segue.
Tutti ora possono vedere le sue mani miracolose moltiplicare fino alla sazietà i pochi pani e i pochissimi pesci che un bambino gli porge, sgranando i suoi grandi occhi pieni di meraviglia. Gesù non dice nulla, ma i suoi gesti richiamano chiaramente la cena pasquale che l’anno dopo celebrerà a Gerusalemme davanti ai suoi discepoli (Lc 22,19): “Prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti con lui”. Questa volta non “spezza il pane”, forse perché le focacce che ha in mano sono piccole, su misura del bambino che le ha offerte. Egli “rende grazie” (eucharistèsas), celebra cioè un’eucaristia, appena anticipo e simbolo di quella che lascerà in eredità alla sua Chiesa. È Gesù stesso a spiegarne il significato nel discorso nella sinagoga di Cafàrnao, che segue il miracolo (6,35s).
Così ogni atto di carità da quel giorno diventa eucaristia, il ringraziamento più gradito a Dio, che ha donato se stesso a noi in nutrimento spirituale. Visto in questa luce, quel pane diventa prezioso, non si può sprecare. Perciò Gesù raccomanda di raccoglierne i pezzi avanzati “perché nulla vada perduto”. È anche questa convinzione che ha indotto la Chiesa a conservare con cura e venerare l’eucaristia nei tabernacoli delle nostre chiese. In quel pane continua il miracolo operato nella messa. Quelle dodici sporte che i discepoli raccolsero (una per ciascuno), è il pane del popolo di Dio, delle tribù del nuovo Israele. Quel comando di Gesù ha nutrito per secoli la venerazione che la nostra gente aveva per il pane, da tener da conto, perché dono della provvidenza paterna di Dio. È uno dei valori che la nostra società dello spreco ha purtroppo perduto. Eppure il pane che ancora mettiamo sulle nostre mense resta un richiamo al ringraziamento, alla carità, al risparmio.