Oggi Marco ci racconta due miracoli intrecciati fra loro in progressione. Hanno per protagoniste due donne: quella che soffre di emorragie inarrestabili e la bambina di 12 anni appena morta. I due miracoli erano legati insieme già nella tradizione orale, attestata da tutti e tre i Vangeli sinottici. Il nostro evangelista ha voluto raccogliere insieme quattro miracoli, tutti particolarmente spettacolari, a dimostrare lo straordinario potere divino di Gesù, la sua compassione e la forza della fede. Sono tutti casi disperati che solo Dio può risolvere. Il racconto inizia con il gesto spettacolare, descritto domenica scorsa, col quale Gesù domina con potere divino i venti e le acque tempestose del lago di Genezaret (4,35-41). Narra poi, con colori vivaci e con ricchezza di particolari, l’esorcismo operato nel paese dei Gadareni. Qui Gesù libera un indemoniato furioso e devastatore, posseduto da una legione di diavoli, che si gettano inferociti su un branco di duemila porci al pascolo e li affogano tutti nelle acque del lago (5,1-20).
Nel brano che abbiamo appena letto l’evangelista ci riferisce due miracoli l’uno all’interno dell’altro. Sono tutti casi disperati davanti ai quali l’uomo, anche il più esperto, si sente impotente. I pescatori si devono arrendere davanti alla terribile furia delle onde ingovernabili; l’indemoniato furibondo devasta la regione in cui vive e nessuno riesce a imbrigliarlo, nemmeno con catene; la donna emorroissa ha tentato tutte le cure possibili, ma ha addirittura peggiorato la sua situazione; la bambina di Giairo, prima in agonia, è poi morta all’arrivo di Gesù. Ci sono situazioni in cui l’uomo sperimenta la sua vulnerabilità e la sua impotenza. Solo la fede aiuta a superare il limite invalicabile, con la certezza che Dio non abbandona mai nessuno a se stesso e non rimane sordo al nostro grido. Al suo ritorno a Cafarnao dalla riva orientale del lago, dove ha domato la tempesta e dove ha liberato l’indemoniato, Gesù si trova di nuovo assediato dalla folla che aveva voluto evitare prendendo il largo. Sulla barca non era riuscito a dormire in pace, perché la tempesta gli aveva interrotto il sonno profondo di cui aveva estremo bisogno; sulla riva orientale aveva incontrato l’indemoniato furioso che lo aveva tenuto impegnato per più ore.
Gli abitanti del luogo, impauriti per ciò che avevano visto, lo avevano pregato di andarsene dal loro paese. Era tornato a Cafarnao tra la sua gente, che ora gli si stringeva attorno entusiasta. Facendosi largo tra la folla, gli si avvicina un uomo, un capo della comunità ebraica del luogo (sinagoga) di nome Giairo. Il nome è già un presagio perché nella lingua aramaica “Jair” significa “Dio risuscita”. È un padre disperato che si prostra ai piedi di Gesù e gli chiede di venire subito a casa sua perché la figlioletta sta morendo. Chiede che venga a imporre le mani su di lei, un gesto ritenuto capace di trasmettere la sua potenza risanante. Gesù accetta di seguirlo, ma la folla non lo lascia e gli fa ressa intorno. A questo punto sbuca dalla folla una donna che soffre di metrorragia. Non ha il coraggio di esporgli la sua condizione sia per pudore, sia per paura.
Il flusso di sangue uterino la rende impura come una lebbrosa, con l’aggravate di contagiare con la sua impurità qualunque cosa tocchi. Aveva consultato molti medici, che l’avevano impoverita; il suo male ormai era cronico. Si può immaginare il suo dramma interiore: quello di sentirsi esclusa da ogni rapporto sociale e religioso, in balìa di uno scrupolo che la fa sentire colpevole di ogni suo gesto, ritualmente contagioso. Cerca di raggiungere Gesù alle spalle per non farsi notare e di toccargli almeno il lembo del mantello, nella convinzione che solo così riuscirà a guarire. Tocca, ed è guarita. Crede di averla fatta franca, ma Gesù avverte subito la potenza taumaturgica che è uscita da lui e chiede: “Chi mi ha toccato?”.
Ai discepoli sembra una domanda inutile, nella calca in cui tutti erano immersi, ma egli sa ciò che dice. Si volta e cerca con lo sguardo la donna che, sopraffatta dalla vergogna, gli si getta ai piedi a chiedere perdono e a ringraziare. Con grande discrezione, senza umiliarla, Gesù la rassicura affettuosamente: “Figlia, la tua fede ti ha salvato”. Nessuno dei presenti capisce che cosa sia successo tra i due. La delicatezza di Gesù copre una situazione imbarazzante per la donna. Dopo questa interruzione forzata, Gesù prosegue il suo cammino insieme a Giairo, che proprio in quel momento riceve la notizia della morte della sua bambina. Gesù sente e, rivolto a quel padre distrutto dal dolore, cerca di rassicurarlo e consolarlo: “Non temere, soltanto abbi fede”. In certi casi non servono tante parole, conta la vicinanza e la partecipazione. Gesù lo accompagna affettuosamente fino a casa, dove trova il consueto trambusto di gente che piange e grida di dolore. Tenta di rassicurare anche i presenti: “La bambina non è morta, ma dorme”. Lo deridono, perché considerano la morte come la fine irrimediabile di tutto.
Il Figlio di Dio ha un’idea diversa della morte: è un sonno in attesa di risveglio con la risurrezione. E lo dimostrerà tra poco. I cristiani chiameranno i loro luoghi di sepoltura “cimiteri” (koimetèrioi), cioè “dormitori”. Al momento però nessuno gli crede. Davanti a quel muro di scetticismo, Gesù reagisce cacciando tutti da casa. Trattiene solo il padre, la madre della ragazza e tre dei suoi discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Con loro entra nella camera dove la bambina giace esanime. Sono gli unici testimoni del miracolo sbalorditivo che si sta per compiere. Gesù prende la bambina per mano e le grida in aramaico: “Talita kumi“, cioè “fanciulla, alzati”.
È il grido del creatore della vita. Esso risuonerà potente a Naim davanti alla bara di un giovane portato al cimitero (Lc 7,14) e davanti alla tomba dell’amico Lazzaro a Betania (Gv 11,43). Tutti lo udremo, come un forte suono di tromba, nell’ultimo giorno (Mt 24,31). Con un gesto finale di delicatezza e di amore Gesù invita i genitori a rifocillare la bambina, debilitata dalla lunga malattia. Quel Figlio di Dio non cessa mai di stupire! Ritto sulla tolda della nostra barca sempre in pericolo, in cerca dei nostri occhi vergognosi e imploranti, ci invita di risorgere dai nostri abissi di morte, a non disperare mai perché nulla è impossibile a Dio.