Giustizia: serve la riforma?

Gli specialisti del Cise, Centro studi elettorali dell’università Luiss, in un’indagine in vista delle europee hanno individuato i temi-chiave per l’elettorato di ciascuna forza politica. Ebbene, l’unico tema che compare tra i primi cinque per tutti i principali partiti, con posizioni opposte (Fdi, Lega e Fi da una parte, Pd e M5S dall’altra) è quello dei poteri dei magistrati, da ridurre o da difendere.

Che l’atteggiamento nei confronti delle toghe – argomento di estrema delicatezza per gli equilibri democratici – sia il denominatore comune dei due “campi” contrapposti, la dice lunga sul tasso di ideologizzazione con cui bisogna fare i conti, quando invece la materia richiederebbe ponderazione e serenità di giudizio. Del resto non è una novità. Basti pensare che su argomenti del genere in passato furono addirittura indetti dei referendum.

È in questo contesto che il Governo si appresta a mettere in campo una legge che introduce la separazione delle carriere dei magistrati: giudici e pubblici ministeri su due percorsi paralleli, che quindi non si incontrano mai. Si tratta della terza riforma di natura istituzionale di cui l’Esecutivo si fa promotore, con un assortimento che corrisponde all’articolazione della maggioranza: dopo il premierato e l’autonomia differenziata, cari rispettivamente a FdI e Lega, ora è la volta di una storica proposta berlusconiana che Forza Italia rilancia con convinzione. Per una valutazione puntuale sarà bene attendere il testo ufficiale, quello che sarà effettivamente presentato in Parlamento. Ci sono aspetti la cui definizione tecnica e di dettaglio può risultare decisiva.

In termini più generali, depurata da intenti punitivi e da polemiche pre-elettorali, la questione sollevata da chi sostiene la separazione delle carriere è di grande rilevanza. La posta in gioco è l’effettiva “terzietà” del giudice, anche in rapporto alle modifiche che hanno investito negli anni il processo penale, orientate ad assicurare una sostanziale parità tra accusa e difesa. Ma per raggiungere questo obiettivo è proprio necessario modificare la Costituzione, che prevede un unico “ordine”, “autonomo e indipendente da ogni altro potere”?

La questione è stata motivo già in passato di interventi correttivi, fino alla riforma Cartabia del 2022, in base alla quale il passaggio dalla funzione requirente (pubblici ministeri) a quella giudicante (giudici) o viceversa, è possibile soltanto nei primi dieci anni di servizio e soltanto una volta nella carriera di un magistrato. I dati ancora provvisori dicono che nello stesso 2022 le richieste di passaggio da una funzione all’altra sono state appena una ventina su un organico di quasi 10 mila magistrati. Il fenomeno è così ridotto da far risultare sproporzionato il rimedio proposto con la separazione delle carriere.

E non mancano i pericoli. Dividere la magistratura in due corpi separati, infatti, può alimentare la tentazione di lasciar scivolare i pubblici ministeri nell’orbita del controllo governativo, ma espone anche al rischio – parzialmente contrapposto – che si possa creare un sottogruppo corporativo dei pm più potente e autoreferenziale, come ebbe a dire in un’intervista l’ex presidente della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli. Sarebbe un esito veramente paradossale per i sostenitori della separazione. Il criterio fondamentale, in ultima analisi, non può che essere quello di garantire l’autonomia e l’indipendenza nell’esercizio della giurisdizione.

Stefano De Martis

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