La liturgia di oggi ci fa passare rapidamente dall’accoglienza trionfale di Gesù a Gerusalemme alla sua condanna a morte e alla sepoltura. Un capovolgimento di fronte, verificatosi nello spazio di appena sei giorni, dalla domenica al venerdì. Riassunto nella stessa celebrazione, il cambiamento è scioccante. Indica quanto sia volubile l’uomo e come cambi rapidamente campo quando è ben manovrato da abili registi dell’informazione pubblica. Ma indica anche come la gloria umana passi rapidamente e si cambi in disprezzo. Davanti al Pontefice, nel giorno della sua incoronazione, veniva bruciato un batuffolo di stoppa per ricordargli che “così passa la gloria del mondo!”.
Non c’era bisogno di ricordare questa legge a Gesù, che conosceva bene il cuore umano. Nel suo realismo, accetta col dovuto distacco ciò che gli viene donato: oggi la gloria, domani la croce. Gesù sta venendo da Gerico dove ha appena guarito il cieco Bartimeo, che lo precede con salti di gioia proclamando a tutti la sua spettacolare guarigione. Sono con lui molti pellegrini che salgono a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Sono questi a organizzargli un ingresso trionfale nella Città santa. Gesù trasforma quel chiassoso corteo in un segno messianico, come predetto dai profeti. Salendo da Betania, quasi sulla cima del monte degli Ulivi, manda due discepoli a prelevare nel vicino villaggio di Betfage un somarello, un puledro.
Nella sua chiaroveggenza descrive in antecedenza fin nei minimi dettagli ciò che troveranno i suoi inviati: un puledro legato a una porta di casa, la reazione dei presenti a quella specie di furto, la risposta da dare, la concessione del noleggio dell’animale. La sua consapevolezza di ciò che lo attende è straordinaria; sorprende la lucidità serena con la quale Gesù vive gli ultimi eventi della sua vita terrena. Gli serve quel puledro per lanciare un chiaro messaggio: il profeta Zaccaria, cinquecento anni prima, lo aveva descritto come “la cavalcatura del Messia” in viaggio verso Gerusalemme. E aveva annunciato: “Esulta grandemente, figlia di Sion, rallegrati, figlia di Gerusalemme! Ecco, il tuo re viene a te. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, il puledro figlio di un’asina” (Zc 9,9). Aveva esercitato, come re, il diritto di sequestro per suo uso. Di quel puledro messianico aveva parlato perfino Giacobbe sul letto di morte, nella benedizione riservata a Giuda: “Egli lega alla vite il suo puledro e a scelta vite il figlio della sua asina” (Gn 49,11).
Ce n’era abbastanza per far capire agli abitanti di Gerusalemme, indifferenti e ostili, che egli era il Messia promesso e meritava un’accoglienza lieta ed entusiasta, come quella che gli tributavano i pellegrini in arrivo. Il corteo messianico si scoglie alle porte della città e del Tempio, quando i pellegrini si disperdono nei cortili interni, assorbiti dall’aria di festa. L’indifferenza degli abitanti della città nasconde però l’ostilità, che presto esploderà davanti al palazzo di Pilato, in una scena completamente rovesciata. Noi, che crediamo nel Figlio di Dio, entriamo con gioia e riconoscenza negli eventi della Pasqua, accompagnandolo nel suo pellegrinaggio salvifico. Siamo introdotti così nel dedalo misterioso della Passione, raccontataci oggi da Marco. Il racconto è molto dettagliato pur nella sua sinteticità. Risulta la più lunga narrazione del secondo evangelista e occupa circa un terzo dell’intero Vangelo. Riflette i vivi ricordi personali dell’apostolo Pietro, protagonista diretto degli eventi. Ma riflette anche la catechesi liturgica più antica che accompagnava la celebrazione petrina della Santa Cena nella chiesa di Gerusalemme prima, e di Roma poi.
Sentiamo la voce straziata di Pietro, che aveva vissuto quei fatti nel dolore del suo tradimento e della sua paura già in casa del sommo sacerdote la notte del processo. Fu lui con Giovanni a preparare la cena pasquale in tutto segreto, per non far sapere a Giuda dove Gesù celebrasse e non consentirgli di rovinare tutto. Fu lui che al Getsemani non riuscì a dominare il sonno e fu rimproverato personalmente da Gesù. Fu lui a notare quello strano ragazzo che si era messo a seguire Gesù, arrestato con un semplice lenzuolo bianco addosso, che splendeva troppo vistosamente al chiaro di luna. Fu lui a udire la sentenza di Pilato, e a seguire, sia pure di lontano, il viaggio di Gesù verso il Calvario. In quell’occasione aveva fatto amicizia con Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, che migreranno poi a Roma con la madre (Rm 16,13). Aveva assistito, nascosto tra la folla e disperato, alla terribile crocifissione e morte di Cristo, alla quale non aveva voluto credere quando Gesù gliene aveva parlato la prima volta. Il racconto è collocato tra due scene tipicamente femminili: l’unzione con unguento prezioso a Betania da parte di Maria, sorella di Lazzaro, e il compianto delle donne amiche sulla tomba di Gesù.
Le donne si mostravano più coraggiose e affezionate dei discepoli/uomini, che non fanno bella figura nella vicenda. La scena è aperta dall’odio del Sinedrio, che cerca con inganno di arrestare Gesù, e si chiude con l’atto di riscatto di Giuseppe d’Arimatea, membro del Sinedrio, che provvede con amore e generosità alla sepoltura di Cristo. In mezzo c’è quel misterioso bambino che segue Gesù nel Getsemani, un tocco delicato di tenerezza. Non tutto è negativo: nel deserto del male c’è sempre qualche oasi di bene.
Al centro di tutto, la figura solenne e dignitosa di Gesù che si erge in tutta la sua grandezza divina davanti al Sinedrio, annunciando il suo ritorno di gloria, che tace davanti a Pilato fino ad irritarlo con la sua serena fortezza. È consapevole e padrone della situazione che sta vivendo, e che ha deciso di affrontare con coraggio e libertà per la salvezza del mondo. Il suo corpo e il suo sangue sono la nuova alleanza offerta a tutti per la remissione dei peccati. Questo lo mette in condizione di assoluta povertà e impotenza, totalmente nella mani dei suoi giudici e dei suoi carnefici, che si dividono perfino la sue vesti lasciandolo nudo sulla nuda croce. Questo scuote il mondo, che si oscura in pieno mezzogiorno, come a coprirsi la faccia dalla vergogna e dall’orrore. Cerchiamo di farci l’abitudine, a sentire queste cose. Con riconoscenza e amore, accettiamo ciò che Gesù ha fatto per noi, e adoriamo il mistero della misericordia di Dio per tutti noi.