La paralisi spirituale del peccato

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia VII Domenica del tempo ordinario - anno B

Non si crede più al terribile e devastante male del peccato. Al massimo qualcuno ammette di avere sbagliato, ma non di avere peccato. L’errore è quasi connaturale all’uomo ed è dovuto alla sua limitata capacità di prevedere, vedere ed agire: errare humanum est (sbagliare è umano) dicevano i Romani. Più raro è ammettere di aver peccato, cioè di aver rifiutato consapevolmente l’amore di Dio e del prossimo. È difficile confessare come Davide: “Contro di Te, contro Te solo ho peccato, quello che è male ai Tuoi occhi io l’ho fatto” (Sl 51,6). Molti cristiani hanno perso il senso del peccato, e non si accostano più al sacramento della confessione. Molti vanno a fare la comunione senza essersi confessati da anni. Se parlate di peccato, si trincerano dietro l’interrogativo superficiale: “Che male c’è?”.

In realtà cercano scuse, ma provano un forte disagio interiore, che rassomiglia tanto al rimorso e che avvelena la vita. Sono scontenti e tormentati, perché non riescono a fare un po’ di pulizia dentro. Il miracolo che Marco ci racconta oggi mette allo scoperto la nostra vera situazione. La paralisi che bloccava quell’uomo era il segno, non l’effetto dei suoi peccati. Gesù si guarda bene dal collegare malattia e peccato: rifiuta la concezione del suo tempo, che vedeva malattie e disgrazie come punizioni di Dio per un peccato personale. Un collegamento già contestato dal libro di Giobbe. L’occhio di Dio penetra nel cuore dell’uomo a scoprire sofferenze più grandi di quelle fisiche. Siamo di nuovo a Cafarnao, probabilmente nella casa di Pietro nella quale Gesù è ospite e dove è riuscito a rimanere in segreto, coperto forse dalla complicità del discepolo. Ma è impossibile, in un paesino, che qualcosa passi inosservata: tutti sanno presto di tutti.

Appena si scopre la sua presenza, si forma una calca impressionante fin sulla porta di casa; una muraglia umana impossibile da superare. All’interno della casa, Gesù “annunciava la parola” a quei pochi che erano riusciti a trovare posto. Intanto arrivano quattro uomini che portano su una barella un uomo paralizzato, incapace di muoversi da solo. Vista la calca, i portantini prendono la decisione di salire sul tetto con il loro carico. Le case di Cafàrnao erano basse, a un piano solo, e tutte avevano una scala esterna in muratura che immetteva sul tetto, che serviva da ripostiglio. La casa era in muratura, con travi che sostenevano il tetto, poste a distanza l’una dall’altra di circa un metro. Sulle travi poggiavano traverse, sempre di legno, sufficienti a coprire il vuoto. Sulle traverse venivano poste canne, rami e sterpi vari a infittire la trama. Il tutto era ricoperto da uno strato di venti o trenta centimetri di argilla e terra bagnate, a rendere il tetto il più possibile impermeabile.

Qualche volta veniva lasciata un’apertura sul tetto per dare aria all’ambiente sottostante. I portantini conoscevano bene questa tecnica di copertura, sapevano che potevano far calare la barella tra una trave e l’altra, magari allargando l’apertura dopo aver tolto lo strato di argilla e di rami secchi. È quello che fanno, naturalmente con grande disagio di chi sta sotto e vede piovergli addosso ogni ben di Dio. Dall’apertura praticata sul tetto calano con le corde la barella dove è sdraiato il paralitico, proprio davanti a Gesù, dove la pioggia di detriti ha fatto largo. L’operazione è talmente originale che non si può dubitare della sua storicità. Gesù ammira l’intraprendenza di quegli uomini e la loro fede, perciò interpella benevolmente il paralitico, certamente spaventato da quell’operazione che lo ha coinvolto. Quella presenza è una muta preghiera di guarigione. Alla fede/fiducia del malato si aggiunge quella dei portatori, una solidarietà ammirevole che Gesù non può ignorare.

Questo fa capire quale efficacia abbia la fede di amici e parenti nella preghiera per un loro caro. Gesù, nella risposta a quella fede così solidale, non sembra tener conto della malattia, ma va oltre, mette allo scoperto la situazione interiore del malato. E gli dice: ‘Figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati’. Lo interpella come “figlio” per fargli capire quale posto occupi nel cuore suo e in quello del Padre: si deve sentire accolto e curato come un figlio. Ma la parola di Gesù suscita scandalo. Gli scribi e i farisei, che sono venuti per ascoltare il maestro divenuto ormai celebre, giudicano quella frase una bestemmia, perché usurpa una prerogativa di Dio: “Solo Dio può perdonare i peccati”, pensano. Per loro è in gioco l’onore di Dio. Chi pretende di essere quel rabbi venuto da Nazareth? Un giorno, alcuni di loro prenderanno le pietre per lapidarlo come un bestemmiatore, dicendo: “Tu, che sei uomo, ti fai Dio” (Gv 10,33). Qui non lo dicono, ma lo pensano.

Gesù, che legge nel loro cuore i pensieri che non hanno il coraggio di esprimere, mette a nudo i loro sospetti. Non nega che perdonare i peccati sia una prerogativa esclusiva di Dio, ma dimostra che è lui stesso Dio. È quel Figlio dell’uomo che il profeta Daniele aveva visto venire dal cielo, dotato di ogni potere divino (Dn 7,13s). E risponde dimostrando con i fatti ciò che dice di essere. Per lui è ugualmente facile guarire una malattia fisica e il male spirituale del peccato: “Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – rivolto al paralitico -: ‘Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua'”. La guarigione esteriore visibile dimostra la guarigione interiore invisibile, la parola più facile compie l’impresa più difficile. Tutto questo aveva come scopo di mostrare il potere divino che Gesù, quel potere che lui ha poi trasmesso alla sua Chiesa dopo la sua risurrezione. Fu il primo incarico che consegnò agli apostoli il giorno di Pasqua nella sua prima apparizione ufficiale, quando disse: “Ricevete lo Spirito santo; a coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,22s).

È un grande errore rifiutare il perdono sacramentale della Chiesa con il pretesto che ci si confessa a Cristo solo. Il perdono di Gesù passa proprio attraverso quello della Chiesa, è una condizione indispensabile. Ciò può servire a rivalutare il sacramento della penitenza, tanto trascurato. Non ci si può prendere impunemente gioco di Dio e della sua rivelazione. Potremmo accorgerci, quando sarà troppo tardi, di aver costruito la nostra casa sulla sabbia, e sentirci dire da Cristo giudice: “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità” (Mt 7,21s). Sarebbe terribilmente tragico!

AUTORE: Oscar Battaglia