Ogni tempo ha avuto le sue malattie considerate incurabili e devastanti. Pensiamo alla peste che per secoli svuotava periodicamente città e paesi, pensiamo al colera, al vaiolo, alla tubercolosi che imperversavano nel mondo. La Terra è stata sempre un campo di battaglia dove imperversa il male, magari con nomi e modalità nuove, come oggi il tumore, l’Aids, la droga. Fin dall’inizio il cristianesimo ha affrontato con coraggio e amore la cura dei malati creando ospedali, sanatori, lebbrosari, dispensari. Sono innumerevoli i santi della carità che in ogni secolo hanno speso la loro vita nella cura dei malati e hanno creato istituti ancora oggi attivi. Così si è diffusa in Europa e altrove la cultura dell’assistenza dei malati. Gesù aveva dato per primo l’esempio guarendo tanti malati durante la sua vita terrena. Non considerava questo compito marginale ma parte essenziale della sua missione. Egli era venuto a salvare tutto l’uomo, non solo la sua anima, perché l’uomo è corpo e anima insieme.
La guarigione esteriore era per lui segno della guarigione interiore dal male del peccato. A Giovanni ormai in carcere, che gli domandava disorientato se fosse lui il Messia o bisognasse aspettare un altro, Gesù dava questi segni di garanzia: “I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano” (Mt 11,5). Perciò aveva incluso questo compito anche nella missione dei suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni” (Mt 10,8). Oggi il Vangelo ci descrive la guarigione di un lebbroso, che al tempo di Gesù era considerato un essere immondo da evitare, un morto ambulante senza speranza, uno scomunicato per eccellenza, costretto a vivere segregato dal mondo degli uomini. La lebbra era una malattia simbolo del male che devasta l’uomo fin nel profondo. Così la considerava il libro del Levitico che abbiamo ascoltato nella prima lettura e che contiene regole drastiche e crudeli per chi ne fosse affetto.
Secondo la concezione del tempo, ogni malattia era una punizione dovuta al peccato; figuriamoci che tipo di colpa ritenevano ci fosse dietro la lebbra! Proprio uno di questi malati maledetti andò da Gesù, sfidando tutte le regole più elementari di igiene. Non grida per segnalare la sua presenza, non si tiene lontano, ma si prostra a terra davanti a Gesù, quasi a sfiorarlo. Deve aver approfittato di un momento in cui non era pressato dalla folla, che altrimenti lo avrebbero cacciato in malo modo. Gesù non si sorprende, non inorridisce, non lo evita, ma lo accoglie con amore e compassione. Racconterà più tardi la parabola del buon samaritano, dove criticherà l’atteggiamento senza cuore del sacerdote e del levita, che evitano di soccorrere un povero disgraziato moribondo sul ciglio della strada, scostandosi da lui il più possibile. Nel racconto loderà invece il samaritano compassionevole che si fa vicino e si prende cura di un bisognoso a lui sconosciuto, e se ne fa carico.
Rivolgendosi poi allo scriba che lo aveva provocato aveva detto: “Va’ e fai anche tu lo stesso” (Lc 10,30-37). Ora che era lui stesso ad imbattersi in quel disgraziato devastato dalla lebbra, non poteva tirarsi indietro. Ora doveva essere lui il buon samaritano del momento. Lo schema narrativo è quello consueto dei miracoli, adottato dalla tradizione orale per ricordare e tramandare più facilmente i fatti prodigiosi compiuti da Gesù, naturalmente con le varianti del caso: c’è un incontro, una richiesta, un intervento miracoloso, la costatazione della guarigione avvenuta, la richiesta di segretezza, la diffusione della notizia. Il miracolo mette sempre in evidenza la superiorità di Cristo nei confronti dei grandi uomini dell’Antico Testamento. Mosè aveva chiesto a Dio di guarire dalla lebbra sua sorella Maria, ma lei dovette attendere sette giorni segregata prima di esserne mondata (Num 12,13ss). Eliseo guarì dalla lebbra Naaman il siro, ma nemmeno lo volle incontrare e lo mandò a lavarsi sette volte nel Giordano per essere mondato (2 Re 5,10ss).
Gesù accoglie senza remore il lebbroso che lo supplica con tanta umiltà e confidenza: “Se vuoi, puoi purificarmi”. Quell’uomo fa appello alla volontà di Cristo, al suo buon cuore. Scatta allora in lui la compassione (splanchnisthèis), cioè un sentimento viscerale partecipativo e commosso come quello del samaritano. Come poteva dire di no a quel relitto umano prostrato ai suoi piedi? Non esita un momento; allunga la mano per toccarlo e rassicurarlo amorevolmente, e dice chiaro: “Sì che lo voglio, sii purificato”. Era vietato dalla legge toccare un lebbroso; si diventava immondi e bisognava poi sottoporsi a riti di purificazione. Gesù non tiene conto di questo, è più forte il bisogno di donare una carezza a quel lebbroso desolato. Il gesto affettuoso e la parola potente rimettono subito in piedi l’uomo, ormai restituito all’umana convivenza.
La destra del Signore ha ancora compiuto meraviglie (Sl 118,16). Guarire un lebbroso è come risuscitare un morto, dicevano i rabbini. Andatelo a dire a quell’uomo, quanto ciò fosse vero! La commozione assale Gesù che, come ogni uomo che non vuole farsi vedere emozionato, fa il duro e scaccia da sé il guarito intimandogli di non dire niente a nessuno, ma di andare dal sacerdote del suo villaggio per compiere il rito di purificazione e per farsi rilasciare l’attestato di guarigione, necessario per rientrare in società. L’intimazione di tacere si rivelò perfettamente inutile, perché l’uomo gridava a tutti quelli che incontrava la sua gioia e la riconoscenza al suo benefattore per la guarigione ricevuta. Questo provocò un afflusso enorme di persone curiose e interessate, tanto che Gesù non poteva entrare pubblicamente in città senza esser assalito dalla folla. Era costretto a rimanere fuori per sfuggire alla morsa della gente, sana e malata.
Una lezione però l’aveva data, valida allora e oggi: prendersi cura del prossimo bisognoso ha un prezzo in termini di tempo, di denaro, di quiete personale. Gesù diceva: “I poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14,7s). La stessa cosa si può dire dei malati da assistere, per quanti progressi faccia la medicina. Non bisogna stancarsi di accoglierli e di aiutarli sempre, secondo le proprie capacità e possibilità. Chi è stato male in maniera seria, sa quanto sia preziosa una compagnia, un’assistenza, un sorriso, una carezza.