Il Giordano è il fiume di confine tra l’èra ebraica e quella cristiana: lo attraversò per primo Gesù per introdurci nella terra nuova di Dio. Il suo battesimo segnò l’inizio di una generazione nuova, quella dei figli di Dio, che non sono nati né dalla carne, né dal sangue, né da volontà umana, ma da acqua e Spirito santo (Gv 1,13; 3,5). Lo proclamò lo stesso Battista: “Io vi ho battezzato con acqua, ma lui (Gesù) vi battezzerà in Spirito santo”. Segnò così l’abissale differenza tra il suo battesimo e quello cristiano. Ogni anno la liturgia ci invita a riscoprire il nostro battesimo, presentandoci Gesù al Giordano. Da quel fiume iniziò la sua missione, da quel fiume inizia il nostro cammino di credenti: tutti là siamo nati.
Le folle giudee correvano verso il fiume per esprimere il pentimento dei loro peccati e la volontà di riscattarsi; le folle cristiane iniziano il loro cammino dal battesimo in Spirito per annunciare a tutti la bella notizia del Vangelo, quella dell’amore di Dio per il mondo. E pensare che ci sono cristiani che chiedono lo “sbattezzo”, cioè la cancellazione del loro nome dai registri parrocchiali, perché si vergognano di essere figli di un Dio che hanno rinnegato. Fa pena solo a pensarlo! Chiedono a Dio una cosa impossibile: di non ritenerli più suoi figli e di non amarli più come tali. Noi, che crediamo all’amore immutabile di Dio, torniamo oggi alla lezione di catechesi battesimale che Dio ci dona sulle rive del Giordano.
Tra l’Epifania appena celebrata e la scena oggi descritta c’è un intervallo di tempo di circa trenta anni, che noi scavalchiamo in pochi giorni. L’evangelista ce lo ricorda dicendo che “Gesù venne da Nazareth in Galilea”, dove ha trascorso trenta anni di nascondimento, immerso nel quotidiano di una vita uguale a quella di tutti. Ora che è adulto, ha deciso di uscire allo scoperto, rivelando il mistero nascosto in lui sotto le vesti di ogni giorno. Mostra a tutti che il mistero di Dio, la sua presenza gloriosa, fa irruzione nella vita umana quotidiana. In fin dei conti questa è la realtà del nostro battesimo: siamo figli di Dio in formato umano; nascondiamo Dio nel velo della nostra carne mortale, come tabernacoli viventi. Siamo stati coniati come monete che hanno due facce: una faccia umana e una divina. Basta rigirarsi per scoprirle tutt’e due.
Marco non descrive il battesimo di Gesù da parte del Battista, lo dà per scontato. Ci racconta invece ciò che avvenne dopo, quando Gesù risalì a riva, fuori del fiume. Questo per distinguere bene e non confondere i due battesimi, quello di Giovanni e quello di Gesù. La descrizione è molto sintetica, ma ricca di riferimenti biblici. I primi cristiani, che conoscevano bene la Bibbia ebraica, sapevano fare collegamenti rapidi e puntuali con i testi profetici riguardanti Gesù. Marco dice che Gesù “uscendo subito dall’acqua, vide squarciarsi i cieli”. Si formò uno strappo (in greco: schizè) nel cielo, come se Dio spalancasse forzatamente le porte di casa sua e rompesse il silenzio durato quattro secoli, da quando l’ultimo profeta, Malachia, era morto. Da allora un grido erompeva dal cuore dei veri credenti: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). Il grido nasceva dal ricordo nostalgico dell’Esodo: “Dov’è Colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge, dov’è Colui che gli pose nell’intimo il suo santo Spirito?” (Is 63,11).
Ora il nuovo Mosè era risalito dalle acque e poteva riprendere il nuovo cammino del popolo di Dio: Dio aveva squarciato i cieli ed era di nuovo tra noi, era il Dio con noi. Ebbe lo stesso significato ciò che si verificò al momento della morte di Gesù in croce: “Il velo del tempio si squarciò” (schizè). Ormai il cielo di Dio è aperto, a tutti i credenti è stata data la chiave di casa. A questo punto, l’evangelista costruisce il suo racconto come un dialogo del Padre col Figlio e lo descrive come una visione e come un oracolo: lo Spirito scende su Gesù sotto forma di colomba e Dio parla direttamente a suo Figlio. La discesa dello Spirito dal cielo era indicata come il segno dei tempi nuovi, l’èra nuova della salvezza. Pietro lo spiegherà il giorno di Pentecoste (At 2,16-21). La sua discesa sul Messia costituiva la sua consacrazione alla missione che doveva svolgere (Is 11, 2; 42,2).
La colomba è l’uccello più citato dalla Bibbia, con diverse sfumature di senso: è un abitatore del cielo, come lo Spirito; è segno della potenza creatrice di Dio (Gn 1,2); simbolo della pace tra Dio e la creazione (Gn 8,8s), immagine dell’amore di Dio (Cant 2,14). Tutti attributi adatti a descrivere lo Spirito di Dio donato a Cristo e a tutti i figli di Dio dopo di lui. Ma dal cielo viene anche una voce che chiarisce la visione: “Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”. È il duplice segnale di via per la sua missione nel mondo. L’oracolo è composto di tre citazioni bibliche, che lo autenticano come parola di Dio. È la novità inserita nella continuità della rivelazione. Il primo richiamo ci ricorda il Salmo 2, dove al re davidico appena incoronato viene data questa assicurazione: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sl 2,7). Iniziava così ufficialmente la missione del re, figlio di Davide, nei confronti del suo popolo. Queste parole indicano la svolta che si è verificata nella vita di Gesù, uscito definitivamente da Nazareth per iniziare il suo ministero pubblico. Dio lo presenta come suo vero Figlio al momento di inviarlo nel mondo.
La stessa espressione sarà udita sul Tabor al momento della trasfigurazione, ma lì sarà diretta agli apostoli e quindi declinata in terza persona: “Questi è il Figlio mio, l’amato; ascoltatelo” (9,7). La seconda allusione biblica richiama la figura di Isacco, il figlio amato e unico di Abramo. Vi viene annunciato il suo sacrificio: “Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò” (Gn 22,2). Quel sacrificio allora fu solo annunciato ma non eseguito, ora viene annunciato e sarà eseguito. Gesù inizia qui il suo cammino di croce, che fa parte della missione appena affidatagli.
È la missione del Servo del Signore, a cui fa riferimento la terza allusione biblica: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio amato di cui mi compiaccio. Ho posto il mio Spirito su di lui” (Is 42,1). Sulle quattro strofe di questo canto del Servo del Signore composto da Isaia, e che inizia con le parole citate, Gesù baserà la sua missione di redentore del mondo. Ma nelle parole pronunciate dal Padre sul suo Figlio al Giordano c’è già tutta la dignità e la responsabilità di noi futuri figli, nati dall’acqua e dallo Spirito. Figli di Dio inviati a rendere il servizio d’amore agli uomini, offrendo se stessi come sacrificio spirituale a Dio gradito. È la lezione del nostro battesimo!