Abbiamo piene le orecchie e il cuore dei canti natalizi capaci ancora di intenerirci con le loro melodie tradizionali. Se scomparissero dalle nostre assemblee Tu scendi dalle stelle o Astro del ciel, non ci sembrerebbe più Natale. Anche i cristiani dell’età apostolica avevano i loro canti natalizi, prima ancora che questa festa entrasse nel calendario delle Chiese. Li scopriamo citati da Paolo nelle sue lettere, da Luca nel suo Vangelo, da Giovanni nel Vangelo di oggi. Sì, perché il Vangelo che abbiamo letto è un bel canto natalizio; se ne avessimo la musica, potremmo cantarlo. Giovanni lo ha raccolto e forse composto nella Chiesa di Efeso e lo ha messo all’inizio del suo scritto come un bel portale d’ingresso a tutto il Vangelo.
È l’inno a Gesù, Parola di Dio fatta carne. Per i primi credenti la bella notizia della venuta del Figlio di Dio nella nostra carne mortale era una scoperta esaltante, degna di essere cantata e gridata a squarciagola. Per loro il Vangelo non doveva esser solo annunciato, ma anche cantato, tanto era bello: era la meravigliosa canzone di Dio suonata sull’arpa dello Spirito santo. Vale la pena ogni tanto riascoltarne la registrazione, come facciamo con i più famosi cantanti dei nostri giorni che hanno invaso con i loro cd radio e televisione. L’inno di Giovanni narra le tappe del cammino del Figlio di Dio che dal cielo scende in terra per stare fra noi. Tutti gli antichi inni cristiani giunti fino a noi cantano i tre momenti dell’esistenza di Gesù: la sua vita con Dio nell’eternità, la sua venuta nel mondo, la sua morte e risurrezione redentiva.
L’inno di Giovanni contempla questo panorama storico più in profondità, come farà poi nel racconto della vita di Cristo. Il suo canto è composto di quattro strofe: l’esistenza del Verbo nell’eternità di Dio (vv. 1-2); la sua attiva opera nella creazione del mondo (3-5); la sua venuta per un incontro spirituale con gli uomini dell’antico popolo ebraico (9.13); la sua rivelazione piena con l’umiltà della sua venuta nella nostra carne a Natale e con la gloria di risorto a Pasqua (14-18). Al centro di questo cammino c’è l’Incarnazione, vista come un nuovo e inaudito evento di grazia. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che, dopo i numerosi tentativi di Dio di salvare l’umanità prima di Cristo, il Verbo si facesse carne lui stesso per vivere fra noi e prendere su di sé il peccato del mondo. Ma immergiamoci nel canto per scoprirne le ricche e numerose melodie. La prima strofa è composta di tre frasi essenziali: “In principio era il Verbo (Parola), e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”.
C’è l’evidente intenzione di richiamare il libro della Genesi, che gli ebrei titolavano dalla prima parola Berescit (“In principio”). Lì si leggeva che “in principio Dio creò il cielo e la terra”, qui si legge che in quell’inizio del tempo il Verbo già esisteva, non come creatura, ma come creatore dell’universo. Il Verbo, cioè la Parola di Dio preesistente, non era un semplice suono, ma una persona, il Figlio unigenito eterno come il Padre. È descritto con l’imperfetto del verbo essere: “Egli era”, che certifica la sua esistenza eterna senza principio né fine. Si dice ancora che “il Verbo era presso (pros) Dio”, non accanto, ma dentro a formare una cosa sola con Lui (Gv 10,30). A Filippo Gesù domanderà: “Non credi che io sono nel Padre e che il Padre è in me?” (Gv 14,10).
Il Verbo-Figlio partecipa intimamente della vita stessa di Dio, perciò la terza frase conferma: “Il Verbo era Dio”. Una frase riassuntiva chiude il cerchio: “Egli era in principio presso Dio”. La seconda strofa descrive l’opera del Verbo nella creazione: Dio ha creato il mondo con la sua Parola, annunciava il primo libro della Bibbia. Giovanni vi insiste in forma positiva e negativa: “Tutto fu fatto per mezzo di lui” niente esiste senza di lui’. Qui comincia la storia dell’universo, il suo divenire (eghèneto). L’attenzione è puntata però sul capolavoro della creazione: l’uomo fatto ad immagine e somiglianza del Verbo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Non c’è luce maggiore della vita consapevole, che solo l’uomo possiede. È la sua intelligenza la fiammella celeste che lo fa simile a Dio. Questa luce divina che splende tra le tenebre del mondo è stata tante volte messa a rischio, ma le tenebre non l’hanno vinta. Il bene avrà l’ultima parola sul male, la luce prevarrà sulle tenebre.
La terza strofa descrive perciò la lotta tra la luce che viene dalla Parola e le tenebre dell’ignoranza e del male che vorrebbero spegnerla. Dio non ha lasciato mai l’uomo senza la sua luce, ma si è visto quasi sempre rifiutato. È la storia del mondo, e in particolare quella dell’antico popolo di Dio, combattuto tra accoglienza e rifiuto. La luce veniva continuamente nel mondo con la chiamata dei patriarchi, con l’appello dei profeti, con la riflessione dei sapienti, ma urtò quasi sempre contro un ostinato rifiuto: “Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto”. Fortunatamente il rifiuto non fu mai totale; ci fu sempre qualcuno che ospitò la Parola nel suo cuore. A coloro che l’accolsero “diede il potere di diventare figli di Dio”. Essi fecero già parte in anticipo della famiglia di Dio che Cristo si acquisterà poi col suo sangue.
La quarta strofa canta l’ultimo tentativo di Dio per la salvezza dell’uomo: la venuta del Verbo nella carne. Colui che era Dio senza tempo divenne uomo nel tempo, Colui che aveva creato il mondo divenne sua stessa creatura. Prese la nostra “carne”, la nostra condizione storica di debolezza, di vulnerabilità al dolore, di limite fino alla morte; divenne vero uomo fra gli uomini, “piantò la sua tenda” mobile sulla nostra terra, pronto sempre a mettersi in cammino con noi, come poi avvenne. Giovanni a nome dei suoi colleghi apostoli, che vissero gomito a gomito con Gesù, afferma solennemente: “Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria di Unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
C’è la sua intera esperienza di vita che va dal Natale a Pasqua. Qui c’è la gloria che avvolse i pastori nella notte della natività, che investì gli apostoli sul Tabor e che fece scoppiare di gioia i discepoli la sera di Pasqua. Esperienza viva, esaltante, da cantare. Lo dirà nella lettera di accompagnamento del Vangelo: “Colui che era fin dal principio, colui che noi abbiamo udito, colui che i nostri occhi hanno veduto e contemplato, colui che le nostre mani hanno toccato, il Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a voi” (1 Gv 1,1s). Quell’annuncio nel Vangelo diventa canto che risuona in tutti i tempi fino ai nostri giorni, come il più bell’inno di Natale.