Chi non conosce la gioia chiassosa ed esuberante di un festino di nozze? È uno dei momenti più importanti e più belli nella storia di ogni famiglia. Gesù non poteva mancare di comporci una parabola, visto che aggancia spesso il suo insegnamento alle esperienze più significative della vita. Paragonare il regno dei cieli ad un festino di nozze significava far capire agli ascoltatori quanto sia bello e gioioso l’incontro con Dio e la familiarità con lui. Non è la prima volta che Gesù descrive la festa di Dio nell’accogliere l’uomo che ama. Semmai è la diffidenza umana a rendere problematico questo incontro familiare gioioso. Facciamo difficoltà ancora a credere all’amore incondizionato di Dio, siamo troppo figli del paganesimo, dove dominava la paura delle divinità capricciose.
La storia raccontata in questa parabola è la nostra storia, riflettiamoci sopra. Da tempo gli esegeti considerano questo racconto come la fusione di due parabole distinte: quella appunto del banchetto di nozze e quella dell’abito nuziale. Di questa seconda non c’è traccia nel racconto parallelo di Luca (14,15-24). Ciò non si spiegherebbe, se la tradizione orale apostolica le avesse abbinate nella fase che precedette i Vangeli scritti. Chiaramente, Matteo ha unito le due parabole per affinità di argomento e per ragioni catechetiche. Appare poco comprensibile infatti che il re esiga l’abito di nozze dagli straccioni che ha raccolto ai crocicchi delle strade, dove chiedevano l’elemosina. Anche perché l’invito era senza condizioni: nessuno ha chiesto loro un abbigliamento particolare all’ingresso in sala.
Il banchetto iniziale è presentato come una festa, non come una chiamata in giudizio. Appare chiaro poi che i servi non sono più quelli di prima, designati come “schiavi” (doùloi); quelli chiamati in seguito dal re sono semplicemente “camerieri” (diàkonoi). Allora perché Matteo ha unito le due parabole? La sala di nozze indicava ormai la Chiesa affollata di giudei e di pagani, “buoni e cattivi”. Nessuna selezione previa come nel campo infestato dalla zizzania o nella rete a strascico che raccoglie ogni sorta di pesci (Mt 13,24-30.36-43. 47-50). L’evangelista voleva avvertire questa folla eterogenea, specie i suoi lettori giudeo-cristiani, che non bastava aver accettato l’invito ad entrare nella comunità cristiana, bisognava essere degni di starci. La Chiesa non è una giostra di persone allegre e spensierate che si divertono, mangiano e bevono.
Nessun credente ha la polizza di assicurazione gratuita sulla vita eterna, deve meritarsela con una degna condotta di vita. Alla fine tutti devono passare alla cassa a ritirare lo scontrino finale, tutti sono soggetti al giudizio di Dio che non fa preferenze di persone, e non dà la licenza a nessuno di comportarsi male. È un invito anche a tutti noi a controllare se siamo cristiani degni del nome che portiamo. La seconda parabola non toglie nulla alla gioia inculcata dal festino di nozze della prima, vuole solo richiamare alla responsabilità di una festa che non consente sbracamenti e sguaiatezze. La gioia vera è serena e composta, il resto è goliardia in vacanza. La parabola richiama chiaramente la storia della salvezza messa in atto da Dio, iniziata con Israele e finita con i popoli pagani. L’invio dei servi-messaggeri indica la missione dei profeti inviati in tempi diversi, e tutti finiti male.
Il grande rifiuto secolare è punito da Dio con la distruzione della città di Gerusalemme. Al posto dei primi invitati, Dio ha chiamato i popoli pagani, che al tempo di Matteo già affollavano la Chiesa. Sono questi in prevalenza a fare festa con Dio, come aveva insegnato Gesù in risposta alla fede del centurione romano di Cafàrnao, strettamente parallela ai nostri due racconti (8,11s). Quel banchetto festoso è l’anticipo delle nostre assemblee domenicali, che già i cristiani di Matteo celebravano nella santa cena. Il nostro evangelista ha accentuato di più questo significato ecclesiale, perché l’ha descritto come un festino organizzato da un re per suo figlio. In Luca a celebrare il festino è appena un ricco signore, che invita gli amici a fare festa con lui per il matrimonio di suo figlio; tutto avviene nell’ambito di famiglie altolocate, dove il rifiuto diventa un affronto personale da vendicare in una specie di faida. Matteo ha dato al racconto una chiara tinta regale, e quindi un respiro più ampio di Chiesa. Quel re che invita è Dio, che apre la sua casa a tutti e vuole che tutti siano felici con lui.
Il Vangelo è “lieto annuncio” di questa familiarità con Dio, presente e futura. Sullo sfondo c’è sicuramente anche il banchetto escatologico, immagine classica del paradiso. Siamo collocati tra il passato della venuta di Cristo nel suo matrimonio con l’umanità, costituito dall’Incarnazione, e la conclusione finale della storia, quando Dio accoglierà i suoi eletti nella dimora definitiva, cioè nella sua famiglia celeste. Il libro dell’Apocalisse di san Giovanni contiene un grido che fa sicuro riferimento alla nostra parabola: “Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!” (19,9). Esso richiama la fine dei tempi (personali o collettivi), quando Dio trasformerà il mondo in una grande sala di nozze, in una festa senza fine per la felicità di tutti. Allora “egli sarà il Dio-con-loro, e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Ap 21,4).
Fa riflettere l’apparente insuccesso iniziale descritto dal nostro racconto: i primi invitati rifiutano un messaggio tanto vantaggioso per loro, non se ne curano, presi come sono dai loro interessi personali: “Andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari”. Non hanno tempo per Dio, spesso sono ostili a lui, ed Egli deve concludere: “Gli invitati non erano degni”. Il re rimedia a questo fallimento iniziale chiamando i poveri e gli emarginati ai crocicchi delle strade, buoni e cattivi, e la sala di nozze si riempì di commensali. Nella parabola dei due figli, letta due domeniche fa, Gesù ammoniva i suoi ascoltatori: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (21,31). Qui conclude in maniera analoga: “Molti sono chiamati, ma pochi eletti”, cioè pochi sono quelli che apprezzano e accolgono l’invito di Dio alla vera felicità. Molti gettano al vento ciò che più conta. È il gioco più pericoloso.