Quella della vigna è una parabola raccontata anche da Marco (12,1-11) e Luca (20,9-18), con leggere varianti che non incidono sul significato di fondo. Tutte tre le versioni la collocano nella cornice delle polemiche suscitate dai capi giudei nel tempio di Gerusalemme, dove Gesù sta predicando. Gesù ha appena ripulito con energia il tempio dal mercato che vi si teneva, e Marco ci avverte che i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo per metterlo a morte, ma avevano paura del popolo, che seguiva e ammirava il suo insegnamento (11,18). Un clima rovente, in cui anche altri gruppi, come i farisei e gli erodiani, si coalizzano per tendergli tranelli e suscitare discussioni (12,13). Gesù deve mettere in campo tutta la sua scaltrezza dialettica, tanto da meravigliare i suoi stessi interlocutori. Per questo motivo si serve spesso del linguaggio figurato delle parabole, che gli consente maggiore libertà di difesa, senza attacchi diretti contro gli avversari.
Matteo ne riporta tre una di seguito all’altra: quella dei figli diversi (21,28-33: letta domenica scorsa), quella dei contadini ribelli, di oggi (21,33-46) e quella del banchetto nuziale (22,1-10). Tutte hanno per tema il rifiuto dell’invito di Dio, che Gesù rimprovera ai suoi malevoli interlocutori. Al centro dei tre racconti c’è la nostra parabola, che è la più tragica, perché descrive con realismo profetico il delitto che i capi stanno per mettere in opera: l’uccisione del Figlio di Dio. La parabola è costruita con maestria narrativa, come sapeva fare Gesù, ed ha un ritmo fondato sulla regola del 3. Sono descritti tre invii, due di servi e uno del figlio, in un crescendo di violenza che rende la scena sempre più drammatica, dalle percosse al delitto plurimo e all’uccisione del figlio, gettato violentemente fuori del campo. Sulla china del male è difficile arrestarsi in tempo.
La parabola è ambientata in Galilea, dove esisteva un diffuso latifondo in mano a proprietari stranieri, per lo più romani. Questi risiedevano lontano e amministravano le loro proprietà mediante fattori (servi) incaricati di ritirare i proventi dai fittavoli. Questo diffuso sfruttamento straniero era mal sopportato; la ribellione, a volte violenta, era pilotata dagli zeloti anti-romani e nazionalisti fanatici. Gesù utilizza per la sua parabola questo tipo di situazione-limite, capace di colpire in modo efficace la fantasia degli ascoltatori. Non vuole fomentare il fanatismo degli zeloti; non intende fare cronaca, fa catechesi. Il racconto gli serve per far capire ai capi del popolo l’assurdità e la crudeltà del loro agire contro Dio. Ribellarsi a Dio è come lanciare sassi in cielo, che ricadono sul capo di chi li lancia.
Il lontano padrone del podere (oikodespòtes = il padrone di casa) invia, al tempo del raccolto, i suoi servi a ritirare la sua parte di prodotti. Forse presupponendo una reazione negativa, manda un gruppo di servi che a loro volta vengono bastonati, uccisi, lapidati. Manda allora un gruppo più numeroso capace di opporre efficace resistenza, ma ormai è scattata la violenza e questi subiscono la stessa sorte. C’è in questi episodi uno spaccato della storia d’Israele: Dio ha mandato più volte i suoi profeti per invitare a conversione i fittavoli ebrei della Terra promessa. Tutti erano stati maltrattati o uccisi. Pochi giorni dopo, Gesù, davanti alla Città santa, non aveva potuto frenare questo doloroso lamento: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono inviati, quante volte ho tentato di raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e tu non hai voluto. Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta” (Mt 23,37).
La pazienza di Dio era stata grande, inaudita, ma era ancora più grande il suo coraggioso e generoso slancio d’amore nell’inviare suo Figlio, dopo le tragiche esperienze avute con i servi profeti. Fu un gesto imprudente, ingenuo, assurdo? No, fu un gesto consapevole e ponderato, come dimostra il breve monologo riportato: “Avranno rispetto per mio figlio!”. È l’ultimo e decisivo tentativo di Dio di riportare gli uomini alla ragione, non con la forza, ma con l’amore. Dio non agisce mai per rabbia, agisce sempre per amore, perché Egli è amore, solo amore. Però la malvagità umana non ha confini: quei contadini ostinati tengono consiglio e decidono di uccidere l’erede, nell’assurda pretesa di impossessarsi del podere. E pongono subito in atto il loro proposito omicida: assalgono il “figlio diletto”, lo trascinano fuori del campo e lo uccidono. Un brivido di orrore deve aver attraversato la folla che ascoltava, come noi che leggiamo.
Alla domanda di Gesù su cosa avrebbe dovuto fare il padrone contro quei contadini macellai, la gente indignata rispose con una specie di urlo liberatorio: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà al vigna ad altri che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. Gesù approva il verdetto, ma guarda anche al lato positivo di quel triste evento: Dio sa ricavare un gran bene da quella brutta vicenda. “La pietra che i costruttori hanno scartato, è divenuta pietra d’angolo”, sostegno e legame indispensabile per il grande edificio nuovo della Chiesa. Quel fatto tragico diventa allora “una cosa meravigliosa”: la redenzione.
La parabola, sulle labbra di Gesù, descriveva la brutta storia del rifiuto d’Israele attraverso i suoi capi, fittavoli della vigna di Dio che è il Suo popolo; rifiuto culminato nell’uccisione del Figlio di Dio. Essa tradisce anche la lucida consapevolezza che aveva Gesù di essere Figlio di Dio e la chiara visione del suo destino di morte e risurrezione. Sotto la penna di Matteo, la parabola diviene una constatazione e un ammonimento: constata la realtà storica di quanto è avvenuto, perché i lettori giudeo-cristiani si rendano conto dell’enorme responsabilità di dire “no” a Dio, e ammonisce sulle tragiche conseguenze che ciò comporta: l’esclusione dal regno di Dio e dalla salvezza. Non nascondeva però la grande novità nata da quel tragico rifiuto: la nascita di un popolo nuovo che ha sostituito l’antico. A questo popolo, che siamo noi, spetta ora la responsabilità di portare frutti nel campo di Dio, per non essere cacciati fuori. L’impegno cristiano è una cosa seria.