Possiamo definire questo racconto: la parabola delle sorprese. Essa ci avverte che l’agire sovrano di Dio non è l’agire di noi uomini. C’era d’aspettarselo, perché Dio è Dio, non un uomo (Os 11,9). Già per mezzo del profeta Isaia ci avvertiva: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo è alto sulla terra, tanto le mie vie sono lontane dalle vostre, i miei pensieri sono diversi dai vostri” (Is 55,8s). Le beatitudini enunciate da Gesù sul monte sono il manifesto di un Dio che capovolge ogni criterio umano di valutazione. Del resto, un Dio che agisca con criteri solamente umani possiamo sospettare che sia un idolo creato da noi, non molto diverso da quelli che adoravano i pagani fuori di Israele.
Una cosa è certa, Dio non è capriccioso come gli dèi della mitologia greca: agisce sempre per amore dell’uomo, schierato decisamente e sempre dalla nostra parte. Non dimentichiamo che il nostro Dio è amore (agapè). Tutto ciò che fa, lo fa per la salvezza dell’uomo, non per la sua rovina. Le sorprese del nostro Dio, che troviamo nella parabola, sono tre: le modalità di reclutamento dei braccianti; le modalità del pagamento; la giustificazione dell’agire anomalo. Protagonista della parabola è un ricco proprietario terriero, indicato come “padrone di casa” (oikodespòtes) e come “Signore” (Kyrios). Chiaramente Gesù descrive la sovranità di Dio e il suo agire con gli uomini chiamati al suo servizio. La prima sorpresa della parabola riguarda il modo con cui il padrone recluta i braccianti.
È assolutamente anomalo che la chiamata avvenga in diversi momenti nell’arco della giornata, dalla prima (6 del mattino) all’ultima ora lavorativa (le ore 17). Era consuetudine ingaggiare i braccianti necessari al lavoro la mattina presto. Non si può pensare qui a lavori urgenti come quelli della mietitura, perché l’uva resiste a lungo sulla vite e, anche se appassisce un po’, rende il vino migliore. L’ingaggio a cinque intervalli regolari ha significato teologico. Forse avevano ragione i Padri antichi che nel racconto vedevano la chiamata di Dio alla fede e all’impegno cristiano, in tempi diversi nella vita degli uomini. Concludevano che Dio chiama l’uomo a tutte le ore e tutte le età. Non è importante quando si è chiamati, ma come si risponde. Alcuni codici occidentali infatti aggiungono una seconda conclusione alla parabola, che suona così: “Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”, che si ritrova anche altrove (Mt 20,16b; 22,14).
Forse dovremmo dire meglio che nasciamo con un personale progetto di Dio iscritto nella nostra vita, disegno che si dipana fino ad affiorare coscientemente nella stagione della vita stabilita da Dio. A tutti gli operai il padrone assicura che riceveranno un giusto salario per il loro lavoro, senza precisare quanto. Sappiamo che ai chiamati della prima ora aveva garantito un denaro come compenso; era lo stipendio giusto di un bracciante che lavorava dodici ore, dalla 6 alla 18, fatto salvo l’intervallo del pranzo. Chi arrivava più tardi aveva una paga proporzionata, sempre però a scalare sul valore di un denaro. Alla fine della giornata però scatta un’altra sorpresa, riassunta paradossalmente nella conclusione: “Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi” (v. 16). Che cosa significa? Ordinariamente il pagamento iniziava dai primi, che avevano dedicato più tempo al lavoro e scalpitavano per tornare a casa.
Qui si vedono invece scavalcati dagli ultimi, dai penultimi e via scalando. Questo basta a giustificare l’enigmatica conclusione? Non sembra. Probabilmente la scelta di cominciare dagli ultimi è fatta ad arte ed ha valore pedagogico. Se il padrone avesse cominciato dai primi, questi sarebbero andati subito via, e non avrebbero notato l’apparente ingiustizia operata nei loro confronti. Il fatto che il padrone dia agli ultimi un denaro pieno, crea aspettative e speranze nei primi, che pensano di ricevere di più, in proporzione del maggior numero di ore lavorative. Quando viene il loro turno però ricevono un solo denaro come gli altri. Scatta allora la loro energica protesta sindacale, condivisa certamente dai primi ascoltatori e da noi, abituati alla stretta giustizia retributiva.
Il padrone si giustifica adducendo tre constatazioni importanti: innanzi tutto dice che non fa torto a nessuno, perché ha mantenuto scrupolosamente l’accordo; non sta rubando nulla ai suoi operai. In secondo luogo, afferma di essere stato guidato non dalla giustizia retributiva, ma dall’amore; il suo è stato un gesto di pura generosità nei confronti degli operai ingaggiati più tardi, e che si sarebbero trovati svantaggiati; avevano anche loro una famiglia da mantenere. Del resto i soldi che ha dato agli ultimi sono suoi e può farne ciò che vuole. In terzo luogo il padrone fa notare che l’operaio contestatario non si lamenta perché gli è stata sottratta parte del salario che gli spettava per contratto, ma perché è stato dato agli ultimi quanto a lui. Questa è pura invidia, perciò gli replica: “Tu sei invidioso perché io sono buono”.
Fuori metafora, Gesù vuole insegnare che Dio agisce con generosità inaudita verso chi ha accettato di servirlo anche per un’ora sola. Egli è al disopra dei nostri criteri umani di retribuzione, sovranamente libero di agire con amore, che non annulla la giustizia, ma la supera e la esalta. Al ladrone pentito sulla croce ha assicurato il paradiso come a sant’Antonio l’eremita che fece penitenza per più di cento anni nel deserto. Dio non assicura privilegi a nessuno, nemmeno a coloro che ha chiamato per primi; ciò che conta è averlo servito con umiltà e generosità, mettendosi all’ultimo posto.