Il paradosso della vita cristiana

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia XXII Domenica del tempo ordinario - anno A

Ascoltando la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo di domenica scorsa, lodata da Gesù, gli apostoli potevano farsi un’idea trionfalistica della missione di Gesù e della vita cristiana. Il titolo di “Figlio del Dio vivente”, la Chiesa fondata su una solida roccia contro la quale non ha potere il male, potevano dare l’impressione che Gesù fosse venuto a fondare un regno di Dio umanamente potente e invincibile, come era nelle aspettative del popolo ebraico del tempo. Sentendosi dire da Gesù che avrebbe avuto le chiavi del regno, con un potere assoluto di legare e di sciogliere, Pietro forse vedeva confermata questa convinzione popolare. Certamente fu questa l’idea che guidò la madre di Giacomo e Giovanni nel chiedere a Gesù un posto di privilegio per i suoi figli, quello di sedere a destra e a sinistra nel regno che stava per fondare con la Pasqua (Mt 20,20-23). Fu anche l’aspettativa dei discepoli fino al giorno dell’Ascensione, quando domandarono: “Signore, è questo il momento in cui ricostituirai il regno di Israele?” (At 1,6).

Gesù mette in crisi questa idea messianica corrente con una visione nuova e rivoluzionaria: egli non è venuto per regnare con potenza e gloria umane, ma per morire in croce e risorgere il terzo giorno. Contro questa visione apparentemente assurda reagisce Pietro che, come tutti noi, fa fatica a capire lo scandalo della croce. Facciamo infatti fatica a capire come la comunità fondata dal Figlio di Dio non abbia ancora abbracciato il mondo intero, che anzi sia un minoranza in un mondo ostile, e che in molte parti della Terra sia oggetto di odio e di persecuzione violenta. Insomma non accettiamo la presenza del martirio, che è il volto più autentico e connaturale della comunità cristiana autentica. La fede cristiana non è una polizza di assicurazione contro il male. Nessuno sconto e nessun privilegio è garantito ai seguaci di Gesù: solo il cammino difficile in compagnia dei poveri e dei disperati della Terra.

Forse dovremmo rivedere la nostra idea di Chiesa per adeguarla a quella di Gesù. Matteo ci presenta oggi, in apertura di brano, un condensato di catechesi cristiana, che Gesù dedica ai discepoli portati con lui ad un ritiro in territorio pagano, dove le folle della Galilea non li potevano disturbare. Egli svela loro il progetto divino contenuto nelle prima professione di fede cristiana, formulata così da Paolo alcuni anni dopo: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, che fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,3s). Tutto questo, precisa Gesù, accadrà a Gerusalemme dove è diretto, in definitiva, il suo cammino. E saranno le autorità giudaiche del Sinedrio (anziani, capi dei sacerdoti e scribi) a condannarlo a morte. Affiora in queste parole la figura profetica del Servo del Signore descritto da Isaia sette secoli prima (Is 53).

Questo è il vero volto di Cristo, non quello sognato dall’aspettativa popolare in tinta nazionalistica. Pietro reagisce proprio in nome della sua gente, quando prende in disparte Gesù e lo rimprovera: “Dio non voglia, Signore, questo non ti accadrà mai”. È invece proprio l’esatto contrario di ciò che vuole Dio, di ciò che Lui ha deciso dall’eternità e che Gesù ha accettato nel tempo. Il demonio, nelle tentazioni del deserto, aveva cercato di contrastare quel disegno misteriosamente assurdo. Cristo lo aveva respinto con decisione. Ora il diavolo ci riprovava con la collaborazione inconsapevole di Pietro, convinto di parlare anche questa volta a nome di Dio, come nella confessione di fede appena pronunciata e lodata. Gesù reagisce, usando per lui le stesse parole che aveva adoperato per respingere il diavolo: “Vai via, Satana! Tu mi sei di scandalo”. Colui che era stato designato come pietra di fondamento della Chiesa, è diventato ora pietra di inciampo sulla via di Dio. Colui che era stato definito “beato” ora assume la maschera di “satana”.

Cambiano presto i pensieri e le convinzioni umane. Pietro è uno di noi, con slanci e incertezze, con fedeltà e debolezze. Da questa premessa Gesù trae le conseguenze di orientamento per la vita dei suoi discepoli. Chi ha accettato di seguire Cristo non può cambiare strada o andare in senso contrario. Egli descrive questa strada con cinque sentenze in forma ritmica per facilitarne il ricordo: rinnegare se stessi prendendo la propria croce, voler salvare la vita significa perderla, perderla per causa di Gesù significa salvarla, non giova nulla guadagnare il mondo intero se si perde la vita, niente vale più della vita che ha un prezzo inestimabile. Le sentenze apparentemente più dure e difficili sono le prime tre, le ultime due possono trovare consenso come espressione di saggezza popolare. Rinnegare se stessi vuol dire spogliarsi del proprio egoismo, decentrare la propria esistenza da quell’io ingombrante che ci trasciniamo dietro pesantemente e ci chiude ai problemi e ai dolori degli altri. La sequela di Cristo ci induce a non anteporre nulla a lui, a dare a lui il primo posto nella vita.

L’amore cristiano costringe a mettere il prossimo prima di noi, a coniugare il verbo donare, piuttosto che il verbo prendere. Prendere la croce vuol dire accettare le proprie pene e sofferenze quotidiane per amore di Dio, vuol dire essere disposti a dare la vita per lui che è morto per noi in croce. I dolori e le croci quotidiane sono il sacrificio spirituale a Dio gradito, che contribuisce a salvare l’umanità dalla perdizione eterna, unito alla croce di Gesù. I due detti che seguono sono espressi in modo paradossale, mettendo in contrapposizione i verbi salvare e perdere: chi si perde, si salva e chi si salva, si perde. Vogliono dire che la vita si salva e si valorizza donandosi, si perde e si svaluta chiudendosi in se stessi in uno sterile egoismo.

Non si parla qui della vita naturale come valore biologico, ma della vita soprannaturale vissuta con Dio nella sequela di Cristo, quella che sfocia nella vita eterna. Essa non è paragonabile con nessun bene terreno, fosse pure il dominio del mondo. L’errata fiducia nei beni e nei valori terreni è destinata a deludere, perché nulla è stabile al mondo (Salmo 49,8s): la carriera, il prestigio, la ricchezza, il benessere. Solo la vita vissuta con Dio e per Dio ha valore e durata eterni. Alla fine, quando il Figlio dell’Uomo verrà sulle nubi del cielo, dovremmo rendere conto a lui della vita vissuta. All’uscita dal supermercato della vita naturale, dobbiamo passare necessariamente alla cassa per valutare il prezzo di ciò che abbiamo acquistato.

AUTORE: Oscar Battaglia