Per alcune domeniche la liturgia ci propone le sette parabole del regno raccolte da Matteo nel capitolo 13 del suo Vangelo. Le parabole sono la caratteristica più appariscente della predicazione di Gesù. Sono uscite dalla sua osservazione quotidiana. Quadretti di grande efficacia pedagogica, perché il linguaggio delle immagini è il più efficace per comunicare i concetti a gente semplice e concreta. È interessante notare che Gesù non ha mai usato la favola, che è racconto inverosimile: il suo Vangelo invitava a guardare concretamente la storia quotidiana, non a far sognare un mondo fantastico.
La parabola gli consentiva di far appello spesso all’esperienza degli ascoltatori. Voleva che gli uditori aprissero gli occhi sulla realtà che vivevano e scoprissero così il modo misterioso e paterno di agire di Dio con gli uomini. Il suo è un linguaggio accessibile a tutti. Il problema delle parabole non era dunque la comprensione, ma l’accettazione. Lo afferma chiaramente Gesù nel Vangelo di oggi, citando un detto del profeta Isaia. Spesso non si accettava il modo di agire di Dio descritto da Gesù nelle parabole, perché contrastava con pregiudizi e interessi. Allora egli doveva costatare che alcuni “vedendo non vedono e udendo non odono”, che equivale a dire che non c’è più cieco di chi non vuol vedere e più sordo di chi non vuol sentire. Noi mettiamoci allora in ascolto della sua prima parabola. È divisa chiaramente in due parti: il racconto in forma narrativa e la spiegazione in forma allegorica. Nella prima parte percepiamo di più la voce di Gesù, nella seconda riconosciamo più la voce della Chiesa apostolica. Quando Gesù parla seduto in barca, con le spalle rivolte al lago, ha davanti a sé i campi delle colline circostanti. Rievoca per quella gente contadina il rito della semina e dello sviluppo del grano, che loro ben conoscevano.
La semina avveniva in autunno e il grano veniva gettato sulla terra non ancora arata, direttamente sulle stoppie e sui cardi dell’anno precedente, ormai polverizzati dal forte calore estivo; sui sentieri tracciati nel frattempo dai passanti, e sulle rocce affioranti. Solo dopo aver gettato con largo gesto della mano i chicchi di grano su questa superficie irregolare e varia, il contadino iniziava ad arare il terreno arido e polveroso con il suo piccolo aratro di legno, spesso tirato da un asinello. Nell’inverno il grano iniziava a coprire di verde la superficie arata; e a primavera maturava presto al calore del sole cocente. Allora apparivano evidenti le diversità del terreno. Dove affiorava la roccia il grano era seccato sul nascere perché non aveva umore sufficiente; dove c’erano cardi e rovi il grano era stato soffocato da questi, che avevano un più rapido sviluppo; nel resto del terreno il grano si era sviluppato agevolmente, ma con rendimento proporzionato alla bontà e alla profondità della terra. Questo contadino che semina potrebbe apparirci inesperto e sprovveduto, perché semina senza guardare dove getta il suo grano.
In realtà egli sa quello che fa, prevedendo tutti i rischi descritti da Gesù. Egli conosce bene il suo campo e sa che alla fine avrà il suo raccolto. Proprio su questo raccolto finale Gesù attira l’attenzione, calcando le tinte con cifre paradossali. Si sa che i terreni migliori del tempo, se tutto andava bene, davano ai proprietari dieci quintali di raccolto per ogni quintale di semina. È facile immaginare la sorpresa e l’incredulità degli ascoltatori quando Gesù spara loro le cifre esagerate di cento, di sessanta o anche di trenta quintali di raccolto per ogni quintale di semina. Ma lui sta ormai parlando della realtà spirituale del Regno dei cieli, descritta in figura con la semina e il raccolto dei contadini ebrei. Gesù intende chiarire con la parabola l’apparente fallimento della sua predicazione, che non riscuoteva il successo sperato. Invita perciò i suoi ascoltatori a prendere lezione dal contadino: il suo umile e sofferto atto del seminare, che dà l’impressione di gettare via il seme, è la condizione per la gioia del grande raccolto finale. Questa è la logica del regno Dio, cioè del suo agire nella storia.
Dio inizia in maniera umile e silenziosa e sa aspettare con la pazienza del contadino, perché sa che alla fine il raccolto sarà strepitoso. Per Matteo, Gesù propone il suo Vangelo a tutti, anche se pochi sembrano rispondere alla sua chiamata. Chiede a tutti di impegnarsi e di portare frutti concreti di bene nella vita. Realisticamente, distingue il campo in quattro settori, tre sterili e uno solo produttivo. Ma ottimisticamente sottolinea che il settore produttivo compensa ampiamente il fallimento degli altri. Non intende suggerire percentuali, ma stimolare tutti a collaborare col divino seminatore in vista del raccolto finale. Mette però in guardia sugli ostacoli che le fede corre. Il primo è la superficialità degli “analfabeti della fede”, che rifiutano il Vangelo prima ancora di conoscerlo. Il secondo è l’incostanza di coloro che, dopo un inizio promettente, perdono la fede perché troppo impegnativa, specie in un mondo ostile che l’oscura e la denigra con proposte più allettanti. Il terzo ostacolo è costituito dall’assillo del lavoro e dalla corsa al guadagno.
Molti sono assorbiti totalmente dai problemi del vivere e non hanno tempo per Dio e per la loro anima; Dio scompare a poco a poco dall’orizzonte della vita, relegato sempre più in periferia e dimenticato. Ma la parabola non si chiude su questo spettacolo desolante; propone una visione ottimistica del Regno di Dio sulla terra. Alla fine esso avrà un successo strepitoso, oltre ogni aspettativa umana. Gesù aveva assicurato che il Regno da lui predicato avrebbe avuto un esito straordinario nonostante la modestia degli inizi, l’incomprensione e la persecuzione. Aveva insomma predetto la Chiesa sparsa in tutto il mondo. Matteo, che ha visto crescere la Chiesa in modo imprevisto, chiede di perseverare nella fede e portare frutti abbondanti di opere buone. Solo così il credente apparirà come il campo buono di Dio.