Come può il vescovo di Gubbio non parlare della corsa dei Ceri nel mese di maggio? Del resto, l’impareggiabile slancio della manifestazione, la sua unicità sul piano dei valori della tradizione, hanno portato i tre Ceri giganteschi oltre il monte Ingino, fin sullo stemma della nostra Regione. Ma quanto è diffusa la consapevolezza delle sue radici? Per riscoprire la sua identità religiosa risaliamo alle sue origini, quando i fedeli, dopo la morte del loro santo vescovo Ubaldo, avvenuta nel 1160, cominciarono a celebrarne la ricorrenza con le “luminarie”, le fiammelle che si snodavano nella notte per la città fino alla cattedrale, dove Ubaldo riposava accanto ai martiri Mariano e Giacomo. Nel 1194, con la traslazione delle sue spoglie dalla cattedrale alla nuova chiesa costruita sul monte Ingino, la luminaria, dominata da tre grossi Ceri che si trasformarono nel tempo in strutture lignee, salì alla nuova sede del Santo, canonizzato nel 1192. Ma l’evento cominciò a poco a poco a perdere il suo spirito mistico, e per recuperarlo, sulla fine del Cinquecento si introdusse nella processione il cosiddetto “quadro di sant’Ubaldo”.
Nel Seicento la rievocazione assunse un assetto preciso e il suo clima festoso si accentuò nel Settecento, esaltando le “allegrezze” che l’accompagnavano e che erano proprie del carattere generoso degli eugubini. Ma come avviene in molte manifestazioni della religiosità popolare, i valori aggiunti dalle diverse atmosfere sociali, politiche, folcloristiche, sembra che avessero in parte appannato l’anima primigenia di questo spettacolo incredibile che si svolge il 15 di maggio, la vigilia della festa del Patrono. Tuttavia negli ultimi tempi, per merito dei miei predecessori, in modo particolare Beniamino Ubaldi, Cesare Pagani, Ennio Antonelli e il vescovo emerito Pietro Bottaccioli, si è operato un recupero delle motivazioni profonde che sono all’origine della festa, che non è festa di parte, della Chiesa, di una parrocchia, ma è tripudio di tutti, dell’intera comunità nelle sue componenti civili e religiose. Anche gli enti, le istituzioni, le università delle arti e dei mestieri, le famiglie dei ceraioli (Santubaldari, Sangiorgiari, Santantoniari) si sono impegnati nel rivalorizzare il legame tra la corsa e il culto del Patrono.
Proprio per rivalutare l’effettivo significato della festa e soprattutto per trasmetterlo ai giovani, si è attuato un piano educativo intervenendo fin nelle scuole elementari e invitando nelle classi “esperti” in grado di far comprendere la ricchissima essenza di questa tradizione, nata dall’amore per sant’Ubaldo. “O Signore… ricomponi in lui le schiere di quelli che sono già arrivati a Te e di quelli ancora rimasti che verranno con Ubaldo, tuo ascoltato pontefice e sacerdote, sostegno nostro per tutti i secoli che furono e che saranno”. Sono parole della “Preghiera del Ceraiolo”, che riflettono la sete d’eterno dell’uomo e il suo concitato cammino per giungere al monte del Signore, dopo una prima simbolica tappa – per i fedeli eugubini – al “colle eletto dal beato Ubaldo”. E quando nella basilica del monte Ingino, dopo l’immane, entusiastico sforzo della Corsa, i fedeli si raccolgono in preghiera e s’innalza l’inno al Santo, nei volti affaticati, negli occhi dilatati dall’emozione e fissi all’urna del vescovo Ubaldo, si legge un rapimento, una commozione che è impossibile descrivere, perché è il riflesso di un sentimento che è sì comune, ma soprattutto individuale.
È il sentimento di ciascuno, con la sua storia personale, che dopo la fatica della corsa (della vita) si abbandona all’abbraccio del suo amoroso protettore. Allora, nella coscienza della nostra storia di salvezza, alle tante “allegrezze” che colorano la festa, si uniscono anche rinnovate allegrezze dello spirito, che segue l’inestinguibile richiamo proclamato nella preghiera dei Ceraioli e che ci preme nel cuore. Ancora più forte di quello che riconduce a Gubbio gli eugubini lontani per la fantastica Corsa dei Ceri.