“Chi è senza peccato scagli per primo la pietra” (Gv 8,7), aveva detto Gesù in maniera provocatoria ai puritani giudei che volevano lapidare la donna di Gerusalemme sorpresa in flagrante adulterio. Quegli stessi intransigenti moralisti li troviamo oggi davanti a casa di Matteo, il pubblicano, appena chiamato da Gesù alla sua sequela. Questa volta non hanno il coraggio di rivolgersi direttamente a Cristo e interpellano perciò i suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia e beve con i peccatori?”. Lo scandalo maggiore che Gesù dava, mentre era tra noi, era la facilità con cui assolveva i peccatori. Poco prima dell’episodio oggi riportato, aveva compiuto un miracolo eclatante a pochi passi dalla casa di Matteo. Gli era stato presentato un paralitico sdraiato su un giaciglio perché lo guarisse (9,1-8). Appena l’aveva visto, ne aveva provato pietà e aveva ammirato la fede dei portantini. Gli era venuto spontaneo allora esclamare: “Coraggio, figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati”.
Ci fu un momento di sconcerto per quella frase inaspettata, e subito scattò la critica dei maestri farisei che, dentro di loro, pensarono: “Costui bestemmia!”. Non troppo sottintesa, c’era l’idea giusta che solo Dio avesse il potere di rimettere i peccati. Gesù si arrogava dunque questo potere divino esclusivo. Era venuto proprio per questo: rivelare apertamente un Dio che non condanna, ma perdona, un Dio che non uccide i peccatori, ma li cura con efficacia come malati bisognosi. Leggendo queste cose, non dovremmo guardare lontano, perché malati di peccato siamo tutti noi e quindi tutti dovremmo farci curare da lui, che ci ha insegnato a chiedere, tutti i giorni e più volte al giorno: “Rimetti a noi i nostri peccati”. Questo perdono è la stupenda verità che il Vangelo di oggi ci annuncia.
Gesù è sbarcato da poco sulla spiaggia di Cafarnao. Giunge dalla riva orientale del lago, nel paese dei Gadareni, dove ha appena liberato un furioso ossesso dalla “legione” di diavoli che aveva in corpo. Quella liberazione era costata alla gente del posto la strage di duemila porci, che i demoni avevano invaso e gettato ad affogare nel lago. Era un prezzo troppo alto per loro, perciò avevano invitato Gesù ad andarsene. Non avevano capito che un uomo, agli occhi di Dio, vale più di una mandria di porci. Un miracolo sprecato per quella gente materialista, che inseguiva solo il guadagno. Il maestro, un po’ deluso, era risalito in barca senza protestare ed era tornato a Cafànao, la sua città adottiva. Qui gli portano un paralitico in barella perché lo guarisca. Pronuncia allora su di lui quella frase scandalosa, appena citata, sulla remissione dei peccati. Come si permette di dire bestemmie, arrogandosi un potere chiaramente divino! Gesù non polemizza, mostra solo in modo evidente che la sua non è una pretesa, ma un vero potere divino che egli ha in proprio come Figlio di Dio: “Affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere, sulla terra, di rimettere i peccati, alzati, dice al paralitico, prendi il tuo giaciglio e vai a casa”. Egli si alzò e andò a casa sua (9,6s).
Fu una piacevole sorpresa per tutta la gente che sentì e vide; perciò “glorificavano Dio, che aveva dato un tale potere agli uomini” (v. 8). Al racconto riguardante il potere di Gesù di rimettere i peccati segue quello della chiamata del pubblicano Matteo, un impiegato dell’ufficio del dazio ritenuto per condizione peccatore. Dopo quella delle due coppie di fratelli pescatori: Simon-Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, questa è la chiamata del quinto apostolo e, in continuità con essa, è descritta con lo stesso schema letterario. Infatti è detto che Gesù passa, vede Matteo al lavoro, lo chiama alla sequela, e subito egli, lasciato tutto, lo segue. La differenza è che qui Gesù non chiama un pescatore, ma un gabelliere, un uomo a stretto contatto col pubblico (pubblicano) e disprezzato come impuro perché contaminato dal denaro e da gente di ogni risma, peccatore alla maniera dei pagani. Ma quel titolo di “pubblicano”, anziché essere un’offesa, è per Matteo un motivo di vanto.
Nell’elenco dei dodici apostoli, che lui ci fornisce, si presenta orgogliosamente come “Matteo, il pubblicano” (10,2). Nella lingua ebraica Matteo (Mattathia) significa “dono di Dio” ed è il suo secondo nome, perché il primo doveva essere “Levi figlio di Alfeo”, come lo chiamano gli altri evangelisti (Mc 2,14; Lc 5,27). È lui a preferire il suo secondo nome, meno conosciuto, ma indice di cambiamento di vita. Sta di fatto che il nostro evangelista si alzò dal suo tavolo di lavoro, lasciò tutto e seguì Gesù che lo chiamava. Per inaugurare solennemente la nuova scelta di vita, organizzò un banchetto di addio tra amici. Insieme ai pubblicani suoi colleghi, egli invitò Gesù e i suoi primi discepoli. Sedere a tavola con i pubblicani era come mangiare in casa di pagani. Da qui la critica severa dei farisei puritani. Gesù rompeva le più consolidate regole religiose del suo popolo; non doveva permetterselo.
Era scandaloso come andare in casa di prostitute. Matteo sottolinea questa novità, perché già al suo tempo i cristiani giudei venivano criticati per la loro comunanza di mensa con i pagani convertiti. Ne abbiamo ancora un’eco nella Chiesa di Antiochia, intorno all’anno 50 del I secolo, dove Pietro e Barnaba sono costretti da questi pregiudizi giudeo-cristiani a rinunciare alle celebrazioni eucaristiche insieme ai greci cristiani. Il fatto suscitò allora le vibrate proteste di Paolo (Gal 2,11ss). Forse allora fu ricordato il principio generale di carattere proverbiale enunciato da Gesù in casa di Matteo: “Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati”. È la prima volta, dopo i racconti di miracoli precedenti, che Gesù si definisce medico. Il titolo ha significato spirituale e si riferisce al perdono dei peccati.
Appena prima della chiamata di Matteo, Gesù aveva guarito un paralitico incapace di camminare, annunciandogli la remissione dei peccati insieme alla guarigione fisica. Si era presentato così come medico delle anime e dei corpi, cioè medico di tutto l’uomo come Dio lo aveva creato. La ragione di tutto ciò sta nel fatto che l’uomo è inquinato fin nella sua radice più profonda, quella spirituale, dal peccato, e tale inquinamento si manifesta anche nel male fisico ed psichico che lo strazia. Gesù, come medico divino, è venuto a togliere la radice avvelenata del peccato del mondo e lo ha dimostrato anche con la cura delle malattie. Ad inviarlo come medico è stato il Padre, che aveva già annunciato per mezzo del profeta Osea: “Voglio amore, non sacrificio”. Perciò Gesù poteva dichiarare: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Ma chi di noi si sente giusto davanti a Dio?