Correva l’anno 1264. Il papa Adriano IV si trovava ad Orvieto nel suo esilio da Roma e qui venne a conoscenza del miracolo accaduto nella vicina Bolzena appena pochi mesi prima, nel 1263. Un prete boemo, mentre celebrava messa, era stato assalito da forti dubbi di fede sulla realtà del corpo e sangue di Cristo che aveva fra le mani. All’improvviso aveva visto ribollire nel calice il sangue di Cristo che era traboccato sul corporale e sull’altare. Il caso sollevò grande scalpore e il Papa fece trasportare ad Orvieto il sacro lino bagnato di sangue. Fu l’occasione per estendere a tutta la Chiesa la festa del Corpo e Sangue del Signore, fino ad allora celebrata solo a Liegi, città natale del Papa. Stiamo dunque celebrando una festa liturgica nata nella nostra terra umbra.
La vera festa del Corpus Domini coincide con il Giovedì santo, ma sembra quasi scomparire tra le numerose celebrazioni della Settimana santa. Parve utile dunque, al di là delle circostanze contingenti in cui la nostra festa nacque, di celebrare ancora, in modo più solenne, il mistero così grande e familiare dell’eucaristia. L’abitudine ci fa perdere il senso della grandezza dell’evento, che nella messa ci viene annunciato come il “mistero della fede”. Il Vangelo di oggi ci invita a riscoprirlo con maggiore consapevolezza e con fede più sentita. Nel tempo liturgico, non a caso, la festa è posta accanto alla festa della Trinità, un mistero altrettanto arduo alla nostra razionalità.
Quando Gesù annunciò la prima volta l’eucaristia nella sinagoga di Cafarnao, fu duramente contestato sia dai giudei che da alcuni suoi discepoli che, scandalizzati, gli sbatterono la porta in faccia e se ne andarono dicendo: “Questo linguaggio è duro, chi può capirlo?”. Il suo infatti sembrava un linguaggio assurdo: parlava di “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”. Invitato a spiegarsi, aveva rincarato la dose con crudo realismo, parlando addirittura del “masticare” (troghein) anziché del semplice “mangiare” (phaghein). Non possiamo far a meno di confrontarci con queste sue difficili parole per verificare la nostra fede e la nostra devozione, spesso molto astratte e rese innocue per la vita. Un Gesù diventato pane da mangiare e vino da bere è il segno di un amore che si spende fino in fondo, donandosi fino ad annullarsi in noi e farsi da noi assimilare come cibo. Chi può arrivare fino a tanto? Siamo al fondo dell’annullamento iniziato con l’incarnazione e proseguito nella morte di croce.
Non c’è amore più grande di colui che dà la vita fino a farsi mangiare. Il contesto del discorso di oggi si inserisce in due grossi miracoli compiuti da Gesù poco prima: la moltiplicazione del pane per un’enorme folla e il cammino sulle acque del lago in piena tempesta. Erano segni che indicavano l’illimitato potere del Figlio di Dio, in grado di superare senza difficoltà le stesse leggi della natura. Niente è impossibile a colui che comanda liberamente alla natura, senza distruggerla, ma dandole possibilità nuove a vantaggio dell’uomo. Il miracolo non va contro la natura, ma ne potenzia le possibilità, conosciute solo da Dio. E il Dio creatore e signore del mondo era consapevolmente dietro la parola che Gesù aveva rivolto agli apostoli spaventati sul lago in tempesta, quando lo videro camminare sulle acque: “Sono io, non abbiate paura!” (6,20). Quel “sono io” è parola di autorivelazione equivalente al nome di Dio di origine mosaica: “Io Sono” (Iahweh).
Niente è impossibile a Dio, aveva detto l’angelo dell’annunciazione (Lc 1,37). Nulla è impossibile a Dio, fa capire Gesù quando parla del mistero della sua carne del suo sangue dato a noi come cibo. Qui si aggancia il lungo discorso di Cafarnao oggi riportato in piccola parte. Esso è originariamente composto di tre colloqui. È una specie di triplice dialogo con la gente che ascolta. Nel primo dialogo la folla chiede un segno dal cielo, e Gesù risponde che il segno è stato già dato quando egli è disceso dal cielo come la manna dei padri (6,27-41). È il segno dell’Incarnazione, che fa da base all’eucaristia, mistero del corpo e sangue del Figlio di Dio. Da quella risposta nasce la mormorazione di coloro che lo conosce invece come figlio di Giuseppe, e Gesù rivela che solo la fede donata dal Padre può superare le apparenze e rivelare il vero volto del Figlio incarnato (6,41-51).
Descrivendo questo rapporto di fede, Gesù si è presentato così: “Questo è il pane disceso dal cielo, perché chi ne mangia non muoia e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Qui scatta la contestazione dei presenti, che introduce il nostro brano: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. La risposta consente a Gesù di passare dalla fede all’eucaristia. Non si tratta solo di nutrirsi di fede in senso spirituale, ma di mangiare in senso materiale, fisico, la sua carne e bere il suo sangue. È una necessità. Ne va di mezzo la salvezza eterna. Gesù lo afferma prima in forma negativa, che non ammette eccezioni, e poi in forma positiva: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita”; “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Si tratta di mangiare proprio la “vera”, autentica carne del Figlio dell’uomo glorificato, non di accoglierne un simbolo. Essa fa vivere di vita divina, fortifica, e risusciterà i corpi mortali dei fedeli alla fine dei tempi.
Senza mangiare si muore. Poi Gesù compie un ulteriore passo avanti descrivendo il processo di assimilazione legata al cibo nuovo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”. È una assimilazione alla rovescia: Il cibo non diventa carne di chi lo mangia, come avviene normalmente, ma chi mangia diviene ciò che mangia. Egli diventa una sola carne con Cristo glorificato. La carne e il sangue del Figlio di Dio non solo gli donano la vita, ma creano un’unità strettissima con Gesù sul modello trinitario, dove le Persone divine, pur distinte, sono una cosa sola tra loro, perché vivono la stessa numerica vita. È questo il senso delle parole: “Come il Padre che ha la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così chi mangia me, vivrà per me”. Gesù dirà più volte: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30; 14, 9-10).
Nella preghiera dell’ultima cena, quella della cena eucaristica, pregò così per i suoi discepoli presenti e futuri: “Tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola. Siano come noi una cosa sola, io in loro e tu in me” (Gv 17,21s). Commentava così in maniera più chiara il suo discorso sul pane di vita tenuto a Cafàrnao qualche tempo prima, e che noi abbiamo appena udito. Dove si mangia l’eucaristia, si mangia Cristo risorto, che ci assimila a lui, nell’unità della vita trinitaria. Insomma, dove c’è l’eucaristia c’è il paradiso.