Andando a Leopoli vi era il progetto di portar fuori dall’Ucraina quanta più gente possibile di quella in pericolo di vita. Per questo eravamo in contatto con associazioni e cliniche, ospedali e case di cura che ci facilitassero il contatto con i più fragili, anziani e disabili, che non riescono a saltare su un treno o su un autobus.
Al mio pulmino da nove posti viene assegnata una famiglia formata da 5 persone: Sasha, Marina, Andrej, Yarik e Valdik. I primi due sono i giovanissimi genitori di un bambino di nove anni e di altri due di otto. Uno di questi ultimi ha una grave disabilità che non gli consente di camminare e muoversi autonomamente oltre a un ritardo cognitivo evidente. Il vero problema alla frontiera sarà convincere la polizia a consentire il passaggio di Sasha che è abile e arruolato per combattere. Consegniamo i passaporti e restiamo in trepida attesa. Dopo circa mezzora una poliziotta ce li restituisce facendoci capire che ha ricevuto il consenso a permettere l’attraversamento della frontiera per tutti.
Le lacrime e i sorrisi si confondono nell’abbraccio spontaneo che diventa un girotondo. La vita apparentemente “inutile” di quel bambino ha salvato quella del padre. Oltre i confini uno spiraglio di speranza e di pace.