Ancora un altro brano di catechesi battesimale: il battesimo come dono di luce della fede. La scena compare ben sette volte nei dipinti delle catacombe romane con significato chiaramente battesimale. Per i catecumeni questa era la domenica dei grandi scrutini (esami). Veniva aperto solennemente il Vangelo e si proclamava il brano odierno con la confessione del cieco guarito: “Io credo, Signore” (v. 38). A questo punto i catecumeni recitavano per la prima volta il Credo, segno della luce di fede ricevuta. Da questo episodio furono più tardi ricavati i riti dell’unzione con la saliva e con l’olio che precedevano l’immersione nell’acqua. L’acqua è qui indicata dalla piscina di Siloe, dove il cieco è inviato a lavarsi; essa che richiama la vasca battesimale. È un uomo nato cieco (il fatto è ripetuto ben 7 volte), come tutti noi sul piano della fede. Solo la rivelazione portata da Gesù col suo Vangelo ci ha guariti miracolosamente: “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che un peccatore abbia aperto gli occhi ad un cieco nato” (v 32). Da questo racconto nasce anche la designazione dei battezzati come “illuminati” (phôtisthèntes; Eb 6,4; 10,32).
Di questa “illuminazione” (phôtismòs) già parla Giustino nella sua I Apologia (I, 61,13). Siamo dunque alla riscoperta delle nostre origini cristiane e ci mettiamo oggi alla scuola del cieco di Gerusalemme. Quello narrato è un episodio inedito, riferito solo da Giovanni. È ambientato durante la festa delle Capanne, che durava otto giorni ed era considerata la festa della luce e dell’acqua. Già nel primo giorno venivano accesi quattro grandi candelabri d’oro per illuminare il tempio nelle notti successive, quando si vegliava e pregava in tende o capanne improvvisate erette nelle vie della città. Proprio in quell’inizio di festa Gesù si era presentato dicendo: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Era un riferimento simbolico chiaro alle luminarie accese nel tempio e nelle capanne. Alla fine della festa partiva dal tempio la processione solenne dei sacerdoti che andavano ad attingere acqua, con anfore d’oro, alla sottostante piscina di Siloe. Fu allora che Gesù si mise a gridare: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me” (7,37).
Ora i due riferimenti si fondono per Giovanni nel miracolo compiuto proprio nel tempio. Entrando, egli vede un cieco dalla nascita, messo lì a chiedere l’elemosina. I discepoli gli domandano quale sia la causa di quella cecità: la punizione per un peccato dei genitori o suo? Gesù continua a rifiutarsi di collegare il male fisico con il peccato e nega ambedue le illazioni. Una cosa è certa, che quel male è l’occasione per manifestare le opere di Dio da lui compiute, perciò dice: “Finché sono nel mondo io sono la luce del mondo” (v. 5). Passa subito all’azione: raccoglie un po’ di polvere, l’impasta con la saliva e la spalma sulle palpebre del cieco, poi gli dice: “Vatti a lavare alla piscina di Siloe (che significa Inviato)” (v. 7). Tutto qui ha un significato simbolico: il fango è la materia prima usata da Dio per creare l’uomo; la saliva era considerata segno del respiro, quello che Dio alitò sul volto del primo uomo, che divenne così essere vivente (Gn 2,7).
Gesù compie le opere stesse di Dio e con la sua azione salvifica sta ricreando un’umanità nuova. Quest’uomo nuovo nasce dall’acqua e dallo spirito, simboleggiato dall’acqua della piscina di Siloe, l’acqua dell’“Inviato”. Egli è la sorgente che aveva segnalato alla Samaritana domenica scorsa. L’effetto è immediato: “Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Il miracolo diventa l’occasione per una lunga serie di discussioni e di polemiche. Iniziano i vicini e i conoscenti, che si chiedono se si tratti proprio del mendicante tante volte visto all’ingresso del tempio: è lui, non è lui? A queste domande pone fine l’interessato che proclama a tutti con vivacità ed entusiasmo: “Sono proprio io!”, e non si stanca di raccontare a tutti ciò che gli è capitato. Intanto Gesù, come al solito, si è dileguato tra la folla per non divenire oggetto di curiosità morbosa.
Il fatto è troppo eclatante per non attirare l’attenzione dei capi giudei, specie dei farisei, che intentano una vera inchiesta processuale perché il miracolo è avvenuto di sabato, quando non si poteva impastare nemmeno un po’ di fango con la saliva, senza essere accusati di trasgressione grave del precetto divino. Sarà proprio questo l’appiglio che li convincerà a negare l’evidenza del miracolo. L’inchiesta ha tre fasi: nella prima viene sentito colui che era stato cieco. Egli racconta ancora una volta come sono accadute le cose. I farisei gli obiettano che quello non può essere un miracolo, tanto è evidente la violazione del sabato. Lui che ne pensa del suo guaritore? Egli risponde sicuro: “È un profeta”. I fatti parlano chiaro, bisognerebbe avere i paraocchi per non vederlo.
L’inchiesta ora coinvolge anche i genitori del miracolato, i quali non sanno dire altro che quello è il loro figlio, ma non vogliono dare giudizi sul suo guaritore per paura di essere ricattati. Dicono evasivamente: “Chiedetelo a lui, ha l’età e può testimoniare” (v. 21). Il cieco guarito è convocato di nuovo e mostra tutto il suo coraggio nel difendere con vivacità e intelligenza il suo benefattore, che egli nemmeno conosce, perché non l’ha ancora visto con i suoi nuovi occhi. Alla domanda dei farisei di raccontare di nuovo come sono andate le cose, con l’intenzione chiara di ricavarne qualche contraddizione e dimostrare che Gesù è un peccatore, che ha agito per magia, il cieco guarito risponde con intelligenza: “Se sia peccatore, io non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”.
Alla pressione insistente dei suoi inquirenti egli ribatte furbescamente: “Volete diventare anche voi suoi discepoli?” (v. 27). A corto di argomenti, quelli passano all’insulto e lo cacciano via. Il pregiudizio chiude gli occhi sull’evidenza. Ricompare allora in scena Gesù ad accogliere quell’uomo coraggioso. Gli domanda: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. Il titolo richiama il Cristo pasquale che è venuto per salvare con la sua morte e risurrezione. È la prima volta che i due si guardano negli occhi e scatta la scintilla della fede: “Credo, Signore!” risponde, e gli si prostra ai piedi in segno di adorazione. La sua fede è la nostra fede, è la luce che illumina la vita nel cammino verso la visione di Dio faccia a faccia. La riconoscenza e l’adorazione del cieco nato dovrebbe essere anche la nostra.