La vita come servizio di Dio e del prossimo

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Oscar Battaglia XXVII Domenica del tempo ordinario - anno C

Due sono gli insegnamenti racchiusi in questo breve brano del Vangelo: la forza della fede e il servizio fedele e disinteressato. Dal punto di vista evangelico, le due cose sono legate: solo una fede viva e forte fa il miracolo di sradicare l’albero del nostro egoismo e orientarci ad una vita di servizio a Dio, senza calcolo e senza risparmio. I due concetti sono contenuti in una risposta di Gesù ad una precisa domanda degli apostoli e in una breve parabola che fa appello all’esperienza degli ascoltatori. È difficile dire quando e dove Gesù abbia dato questi insegnamenti che l’evangelista ha riunito senza indicazione precisa, mettendo tutto nel complesso delle istruzioni disseminate lungo il viaggio che Gesù sta compiendo verso Gerusalemme incontro alla croce (17,11).

L’insegnamento è rivolto agli apostoli, ma essi sono visti da Luca come rappresentanti dei futuri credenti impegnati nella sequela di Gesù. Gli apostoli sono i dodici scelti personalmente da Gesù, con una specie di appello nominale (6,13-16), come nuovi capifamiglia del popolo di Dio da lui costituito, ad immagine dei patriarchi che erano all’origine delle tribù d’Israele. Essi sono i primi ad essere inviati in missione davanti a lui “ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (9,1-6). Da quella missione erano tornati entusiasti a raccontare a Gesù le meraviglie da loro operate. Forse quella prima esperienza missionaria aveva insegnato loro che c’era bisogno di un supplemento di fede per riuscire a far meglio e di più. Da qui la richiesta rivolta al Signore, che tutti dovremmo fare nostra: “Aumenta la nostra fede!”. Vogliono dire: accresci, rafforza, irrobustisci, la nostra fede, daccene una misura più grande per esportarla tra gli uomini.

Gesù risponde che la fede non si misura sulla quantità, ma sulla qualità. Basta una fede piccola come un seme di senape per sradicare un albero ben piantato nelle sue radici. La piccolezza a cui Gesù allude era proverbiale nel suo ambiente, tanto che egli ci aveva composto su una piccola parabola del regno (13,19). Aveva invitato a guardare lo sviluppo prodigioso del seme di senape, che è piccolo come una pulce, ma che diventa un albero alto anche più di tre metri, capace di accogliere gli uccelli tra i suoi rami. Il seme di senape è piccolo ma è dotato di grande vitalità e resistenza, tanto da crescere anche sul terreno arido del ciglio di una strada. Certo non fa concorrenza al gelso, robusto e ben piantato, che cresce anch’esso ai margini delle strade. Ma l’immagine, trasferita sul piano della fede, insegna che basta una fede piccola come il granellino di senape per sradicare un gelso e trasferirlo dalla sponda in mezzo al lago di Tiberiade.

Matteo e Marco parlano addirittura di spostamento di un monte. Insomma, con una fede piccola ma viva e vivace, l’impossibile diventa possibile, perché ciò che impossibile agli uomini è possibile a Dio (18, 27). Lo ricorda l’angelo Gabriele a Maria annunciandole la sua maternità verginale e quella tardiva di Elisabetta (1,37), facendo eco all’assicurazione data da Dio ad Abramo, primo credente, nell’annunciargli la nascita straordinaria di Isacco in tarda età (Gn 18,14). È la sicurezza che deve accompagnare ogni cristiano nella sua preghiera a Dio, oltre che nella sua modesta azione di apostolato (Mc 11,24). Su questa forza di fede è fondata la vita come servizio che ogni cristiano è chiamato a vivere. Gesù lo dice con una parabola impostata su tre interrogativi, che fanno appello all’esperienza almeno indiretta dei suoi ascoltatori.

Certo, nessuna delle persone che ascoltavano la parabola possedeva uno schiavo al suo servizio, ma tutti sapevano quello che accadeva nelle case dei signori. A questa conoscenza fa appello Gesù nella sua similitudine. Lo schiavo, nella società del tempo, non aveva diritti, aveva solo doveri. Doveva essere sempre disponibile e instancabile agli ordini del suo padrone. La situazione che Gesù descrive per noi è urtante e fastidiosa, ma fotografa con realismo lo schiavismo disumano del suo tempo. Perciò egli domanda agli ascoltatori se abbiano mai visto un padrone che non sfrutta il suo schiavo fino in fondo. Non vuole certo dare una valutazione della schiavitù, intende solo riferirsi alla situazione di fatto presente nel mondo in cui lui e i suoi ascoltatori vivevano. Gesù non intende nemmeno confrontare l’agire di Dio con il comportamento di questo padrone esigente. La parabola non vuole trasmettere una nuova immagine di Dio, quella del Dio-padrone in contrasto con quella del Dio-padre descritta tante volte nel Vangelo. Dentro c’è il forte senso della sovranità benefica di Dio, per rispondere alla quale noi non faremo mai abbastanza. Ma è sempre una visione parziale di Dio, non una visione totalizzante. L’attenzione dell’ascoltatore non è concentrata sull’agire di Dio, ma sul comportamento dello schiavo. A questo mira la conclusione del racconto che presenta come esempio lo schiavo, non il padrone.

Lo schiavo sentiva di dover ubbidire sempre, senza protestare e senza nulla pretendere in cambio del suo servizio. Con la parabola Gesù intende solo demolire la mentalità farisaica, che poteva contaminare i suoi discepoli. Questa concepiva il rapporto con Dio in maniera contrattuale: bastava compiere alcune azioni conformi alla legge mosaica per sentirsi a posto con Dio, considerarsi giusti e avere diritto alla ricompensa. Gesù vuole dire che non si serve Dio con lo spirito del salariato, che commisura lo stipendio alla quantità del lavoro prestato. Lo aveva detto a chiare note nella parabola degli operai chiamati nelle diverse ore del giorno e ricompensati tutti con un denaro (Mt 20,1-16). Il cristiano deve sapere che il suo rapporto con Dio è fondato non sull’interesse, ma sull’amore. È vero che lo schiavo di cui si parla non agisce per amore, ma egli sente di dover tutto al suo padrone per la sua condizione, come il credente sente di dover tutto a Dio sul piano dell’amore. Egli non domanda quanto Dio gli deve, ma quanto lui deve a Dio, perciò evita ogni pretesa di merito, come quella vantata dal fariseo, che si confronta con il pubblicano nella parabola che Luca riporterà poco più avanti (18,9-14).

L’amore vero a Dio esige un impegno senza limiti come quello di Gesù, che ha amato fino a dare la vita; un amore che è totale obbedienza alla sua volontà, senza calcoli, senza pretese, senza rivendicazioni, senza vanto. La conclusione suona un po’ dura ai nostri orecchi: “Quando avrete fatto tutto’ dite: Siamo servi inutili”. Gesù non vuole dire che Dio non tenga in nessuna considerazione ciò che noi facciamo per lui. Dio apprezza molto ciò che noi facciamo per lui, come dice la parabola dei talenti (Mt 25,14-23). Gesù vuole solo inculcare umiltà e modestia nel nostro comportamento. Non dobbiamo credere di essere salvatori del mondo, se abbiamo fatto qualcosa di buono, che è sempre apprezzabile.

AUTORE: Oscar Battaglia