Terminate le solennità del Signore, la liturgia domenicale ci riporta all’ordinarietà del cammino di Gesù insieme ai suoi discepoli. Emerge un forte contrasto tra le narrazioni delle grandi feste, in cui i testi biblici ci hanno narrato le straordinarie manifestazioni del Signore e il Vangelo di questa domenica, che inaugura il tempo ordinario.
Dalla solennità dell’Ascensione fino al Corpus Domini, la liturgia e la Parola di Dio hanno reso visibile il Mistero, anticipandoci il Regno nella sua prospettiva ultima.
Ma gli “effetti speciali”, non sono l’agire ordinario di Dio, bensì lo è la sua azione nascosta e silenziosa, per la quale chiede la partecipazione dell’uomo.
Il cammino ordinario dell’anno liturgico
Il cammino ordinario dell’anno liturgico riprende con il Vangelo di Marco 4,26-34. Il brano conclude il racconto di alcune parabole con queste parole: “Con queste parabole [Gesù] annunciava la Parola. Senza parabole non parlava loro” (4,33-34). I
l “discorso parabolico” traduceva in un linguaggio popolare i grandi misteri del Regno, ed evidenziava l’azione provvidenziale del Padre celeste affinché le folle comprendessero. Non mancava mai, però, un supplemento di spiritoegazione ai suoi discepoli: “In privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (v. 34). Quale opportunità per questi uomini che Gesù aveva da poco chiamato a seguirlo! “Costituì dunque i Dodici” (Mc 3,14-16).
Una vera opera costitutiva di un gruppo scelto… ma quali sono i criteri con cui ha scelto queste persone? Quali le loro “competenze”?
Il Signore non sceglie in base ai “punteggi”…
Sappiamo bene dai racconti evangelici che nulla di straordinario potevano vantare per essere scelti: curricula non certo esaltanti, tranne qualche professionalità, ma che semmai eccelleva nella furbizia per approfittarsene.
È possibile immaginare un legame tra le parabole narrate nel Vangelo odierno e il “materiale umano” di coloro a cui sarà affidato il compito di guidare la Chiesa? La chiamata degli apostoli, inauguratori della comunità messianica il cui fine è la realizzazione del Regno, sembra l’opera iniziale della semina: un atto da compiere con volontà di gettare il seme (Mc 4,26).
Il resto è però affidato alla provvidenza divina: gettato il seme nel terreno, il successivo intervento da parte umana sarà il raccolto (v. 29). In mezzo c’è tutta l’opera nascosta di un Dio che provvede, dal primo stelo fino al frutto maturo (vv. 27-28).
…primo requisito un cuore libero
Il Signore non sembra scegliere in base ai “punteggi” acquisiti con le proprie forze nel corso della vita. Con Lui non si vantano crediti. Un cuore disponibile, libero tanto da accettare una sfida, capace di riconoscere l’amore: queste piuttosto sembrano essere le precondizioni per toccare il cuore di Dio. Poi il discepolo “si farà”.
“Lasciarsi fare” da Dio è la garanzia per acquisire le virtù del chiamato. Essere chiamati e lasciarsi fare da Lui significa fidarsi di Lui, come ricorda la seconda lettura. “Sempre pieni di fiducia” (2Cor 5,6.8), ci esorta a essere san Paolo, perché il nostro cammino avanza nella fede, non nella visione (v. 7).
… capace di vivere l’esilio dal proprio corpo
Interessante anche la chiave di lettura che Paolo dà della nostra condizione: “Siamo in esilio, lontano dal Signore finché abitiamo il corpo” (v. 6), perciò per abitare presso il Signore è necessario essere esuli dal corpo (v. 8). L’esilio sembra essere la condizione necessaria per attraversare il tempo e “traguardare” l’eternità, la meta appagante. L’esilio sembra essere il luogo dove il Signore ci ha collocato stabilmente, forse per ricercare la vera patria, e misurare la nostra fede.
Il popolo d’Israele in esilio ha fatto le cose migliori, le opere più gradite a Dio. Anche noi, popolo della nuova alleanza, il Signore sta “vagliando” con l’esilio. Anche la Chiesa può ritrovare se stessa ritrovando il Signore nella precarietà della condizione attuale, senza la ricerca di certezze “di bassa lega”.
Lo Spirito trasforma il cuore
La Provvidenza traccia il passo lungo che porta il seme a fruttificare (Mc 4,27-28), trasforma il piccolo seme di senape nell’albero più grande (v. 31-33), un piccolo ramoscello di cedro diventerà un cedro grandissimo (Ez 17,22-23). Il profeta, in questa prima lettura, sa vedere in un tempo di esilio l’opera che Dio ha immaginato.
Oggi la Chiesa ha questo sguardo profetico?
La nostra Chiesa, oggi, ha questo sguardo profetico? Siamo capaci di infondere speranza e fiducia in Dio? Oppure ricerchiamo “previdenze” ecclesiastiche che garantiscono un apparente successo, da presentare come via di accesso a futuri riconoscimenti?
Molto appropriato il monito con cui Paolo conclude la seconda lettura: “Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute, sia in bene che in male” (2Cor 3,10).